La sintetica norma, frutto di una inopinata, affrettata, ma oserei dire scellerata decisione del legislatore, creò - e tuttora crea -numerosi problemi applicativi, tanto che (l'ormai ex) ministro Mastella, nel suo disegno di legge per la riforma della giustizia (sic!) aveva ben pensato di abrogare tout court l'art. 3 della legge de qua.
Non è questa la sede per affrontare i nodi irrisolti creati dalla legge n. 102/2006; ai fini del presente scritto basterà ricordare che le cause relative al risarcimento dei danni per morte e lesioni conseguenti ad incidenti stradali, si propongono ora con ricorso, che, a differenza della citazione nel processo ordinario, deve contenere l'indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e quindi anche del nome delle persone da interrogare.
II. L'interpretazione dell'art. 420, V comma, del c.p.c.
Nel rito del lavoro, l'assunzione delle prove costituende dovrebbe avvenire tendenzialmente alla prima udienza, in quanto il V comma dell'art. 420 c.p.c. prevede che nell'udienza di discussione, il giudice, se ritiene che siano rilevanti, ammette i mezzi di prova già proposti dalle parti e quelli che le parti non abbiano potuto proporre prima, disponendo, con contestuale ordinanza per la loro immediata assunzione.
Il VI comma aggiunge che qualora ciò non sia possibile, il giudice fissa altra udienza entro il termine dilatorio di dieci giorni.
La norma è pertanto chiara: in quel rito, i testimoni andrebbero tendenzialmente assunti nella primissima udienza, con la conseguenza che la parte che abbia omesso di citarli potrebbe essere dichiarata decaduta ai sensi del richiamato art. 104, 1° comma, disp. att. c.p.c., il quale stabilisce che "Se la parte senza giusto motivo non fa chiamare i testimoni davanti al giudice, questi la dichiara decaduta dalla prova".
Questo, in effetti, è stato l'indirizzo di legittimità (v. Cass. civ. 12 aprile 1983 n. 2586; 14 febbraio 1984 n. 1133; 13 aprile 1987 n. 3681) sino al 1997, anno in cui il S.C., con sentenza n. 3725 rivide il proprio orientamento, ritenendo "irragionevole" e "contraria al buon senso" la soluzione sino ad allora adottata, per le seguenti motivazioni:
La regola per cui la parte ha l'onere di far chiamare i testimoni nell'udienza fissata per la discussione, dotata di un'apparente logica se postulata in riferimento all'originaria udienza di discussione, si trasforma nella regola per cui la parte, tutte le volte che questa udienza subisca rinvii, ha l'onere di far citare i testimoni e questi hanno l'obbligo di comparire per tutto l'arco del giudizio e per ciascuna delle successive udienze in cui questo finisca per articolarsi: ciò, senza che i testimoni sappiano se dovranno essere ascoltati e sino a quando il giudice, ascoltandoli o dichiarandone non necessario l'interrogatorio, li liberi da tale soggezione.
La regola, dettata dalla preoccupazione di ordine sostanziale di rendere possibile una più tempestiva tutela dei diritti del lavoratore, evitando non necessari differimenti del giudizio, finisce pertanto per tradursi in un formalismo, giacché essa non può non ingenerare nei testimoni la resistenza a comparire inutilmente.
A questo formalismo è ricollegata però una decadenza, con conseguente rischio di compromissione di quei medesimi diritti di cui la regola vorrebbe salvaguardare l'attuazione: ciò in particolare per il fatto di essere imposto anche a soggetti non sempre provvisti dei mezzi economici per far fronte ad attività processuali al tempo stesso costose e aleatorie.
La disposizione dettata dal comma V, dell'art. 420 cod. proc. civ. - che, non diversamente dall'art. 202, comma 1, cod. proc. civ., disciplina, qui nel rito speciale, l'assunzione di ogni mezzo di prova e non solo di quella testimoniale - non deve essere letta in modo separato da quella dettata nel comma successivo.
Le due disposizioni, considerate nel loro complesso, esprimono, la prima, la direttiva per cui il giudice nella stessa udienza ammette i mezzi di prova e ne dispone l'assunzione, la seconda la regola di condotta da tenere per il caso che la direttiva non possa essere osservata ("Qualora ciò non sia possibile....").
Il sesto comma recita, in particolare: - "Qualora ciò non sia possibile, fissa altra udienza, non oltre dieci giorni dalla prima, concedendo alle parti, ove ricorrano giusti motivi, un termine perentorio non superiore a cinque giorni prima dell'udienza di rinvio per il deposito in cancelleria di note difensive".
Se si considera che l'art. 202, comma 1, e l'art. 420, commi 5 e 6, cod. proc. civ., disciplinano nei due riti lo stesso oggetto ed ambedue prevedono una regola ed il comportamento da osservare quando la regola si riveli inapplicabile, il sesto comma dell'art. 420 cod. proc. civ. si presta ad essere interpretato nel senso che l'espressione "Qualora ciò non sia possibile, fissa altra udienza, non oltre dieci giorni dalla prima" si riferisca sia al caso che non sia possibile addirittura ammettere la prova - nel qual caso poi il giudice può concedere alle parti di depositare memorie - sia a quello in cui la prova possa essere ammessa, ma non assunta.
Questa interpretazione consente un piano coordinamento dell'art. 420 cod. proc. civ., con le norme dettate dagli artt. 244 e ss. del codice per la prova per testimoni - oggetto in ordine al quale non v'è una specifica disciplina nell'ambito del rito speciale: assumere la prova per testimoni sarà possibile in concreto se le persone da interrogare siano presenti, non sarà - normativamente - possibile se le persone non sono presenti, perché l'art. 250 cod. proc. civ. non consente intimazione a comparire se non dei testimoni ammessi dal giudice.
Questa interpretazione, secondo la Corte, si lascia poi preferire sul piano sistematico.
Le sanzioni per l'inosservanza di norme processuali, come si desume dall'art. 156 cod. proc. civ., se non sono espressamente disP. dalla legge, possono ricollegarsi solo all'inosservanza di norme che impongono atti indispensabili per il raggiungimento dello scopo: sino a quando resti incerto se la prova sarà o no ammessa, non può ritenersi essenziale che i testimoni siano chiamati a comparire davanti al giudice.
Il processo civile inoltre - come si desume da più norme - deve svolgersi in modo al tempo stesso ordinato sollecito e leale (art. 175, comma 1; art. 88, comma 1; art. 157, comma 3, cod. proc. civ.).
Di questi valori nessuno deve essere sacrificato all'altro, ma tutti, in adeguato bilanciamento, debbono poter trovare concreta attuazione, consentendo alle parti di esercitare il loro diritto di difesa.
Il valore di uno svolgimento sollecito del processo risulta bensì apparentemente sacrificato dalla interpretazione prospettata, ma è suscettibile di essere recuperato attraverso l'applicazione del sesto comma dell'art. 420 cod. proc. civ.; i valori dello svolgimento ordinato e leale appaiono invece subire ben più grave compressione da un'interpretazione della norma processuale, quale quella sin qui seguita.
Essa rende invero aleatoria la posizione della parte, perché, nella realtà dei fatti, la fa dipendere da un evento imprevedibile costituito dal complessivo svolgimento dell'udienza e dalla possibilità che il giudice abbia la disponibilità di tempo per interrogare in quell'udienza i testimoni, cosicché alla parte viene ad essere imposto di tenere un comportamento allo scopo effettivo di evitare un rischio, quella di decadenza dalla prova, e non di esercitare un diritto, quello di vederla assumere.
La Corte si allineò così alla dottrina, la quale aveva aspramente criticato l'orientamento giurisprudenziale prevalente, evidenziando l'irragionevolezza della previsione dell'onere di citare i testi, ancor prima della valutazione di ammissibilità e rilevanza da parte del giudice.
III. La sentenza del Tribunale di Roma
A quanto ci consta, dopo quella sentenza la Corte non è mai ritornata sui suoi passi, ma oggi la questione si ripresenta in tutta la sua criticità, tenuto conto delle gravi conseguenze, a seguito dell'orientamento fatto proprio dal Tribunale di Roma, con la sentenza 29 marzo 2007.
Il Tribunale di Roma afferma che il principio espresso dalla Corte con la sentenza sopra ricordata non possa essere condiviso e ciò per due ragioni.
La prima ragione è che il procedimento speciale disciplinato dagli art. 420 e ss. c.p.c. è caratterizzato da concentrazione, immediatezza ed oralità.
Funzionale a tale impostazione è pertanto la concentrazione di tutte le attività istruttorie in una sola udienza.
La possibilità che l'istruzione non si concluda in una sola udienza è, nell'intento del legislatore, del tutto eccezionale: ed infatti le modificazioni delle domande o le integrazioni istruttorie debbono essere autorizzate dal giudice; la discussione della causa è orale, il differimento per a precisazione delle conclusioni non è concesso, è inibito al giudice riservarsi di provvedere.
Pertanto, se fosse consentito alle parti omettere di intimare i testimoni per l'udienza di discussione il sistema voluto dal legislatore naufragherebbe del tutto, posto che il giudice non potrebbe mai decidere la causa nella prima (e tendenzialmente unica) udienza di discussione, ma dovrebbe sempre rinviare per l'assunzione della prova.
L'intimazione dei testimoni per la prima udienza di trattazione non è dunque un "formalismo", come sbrigativamente affermato dal precedente appena ricordato (e cioè Cass. 3275/97, cit.), ma la consequenziale ed imprescindibile attuazione di un precetto normativo.
La seconda ragione è che, tra i due orientamenti in contrasto, ambedue formatisi anteriormente alla riforma dell'art. 111 cost., solo il primo appare conforme al nuovo testo di tale ultima norma, in quanto solo esso appare in grado di garantire maggiore celerità al processo.
Il Tribunale avrebbe potuto ricorrere all'art. 421 c.p.c. disponendo ex officio la stessa prova dalla quale le parti erano decadute; ma anche tale possibilità è stata espressamente esclusa, sulla base di due ragioni:
la prima, perché il principio costituzionale del giudice terzo ed imparziale (art. 111 cost.) resterebbe vulnerato se fosse consentito al giudice di sanare, attraverso l'esercizio dei propri poteri officiosi, le carenze o lacune dell'attività difensiva di alcuno tra i litiganti;
la seconda, perché le decadenze e le preclusioni, dettate al fine di accelerare i processi, perderebbero ogni ragione di essere ove fosse consentito alle parti aggirarle invocando i poteri officiosi del giudice per raccogliere quelle stesse prove dalle quali sono decadute.
IV. Alcune considerazioni
Per ciò che attiene all'interpretazione dell'art. 420, V comma, mi limito a richiamare e a sottoscrivere quanto già affermato dalla Suprema Corte con la sentenza n. 3725 del 1997, la quale ha espresso il principio tutt'altro che "sbrigativamente", bensì evidenziando in maniera puntuale, come abbiamo poc'anzi visto, gli argomenti di ordine sistematico e di buon senso (il caro vecchio buon senso) che imponevano di abbandonare la tradizionale interpretazione della norma. Oltretutto, se si considera che la ratio della legge n. 102/2006 è quella di tutelare la parte danneggiata, consentendogli un più rapido risarcimento, se ne ricava che l'interpretazione formalistica adottata dal Tribunale di Roma ottiene lo scopo diametralmente opposto.
In ordine, invece, alla mancata ammissione della prova ex officio, ritengo che il motivo addotto dal Tribunale sia solo apparentemente corretto, posto che il giudice di merito non ha tenuto debitamente in considerazione il fatto che la parte aveva omesso di citare i testi in forza di un indirizzo giurisprudenziale contrario a quello espresso dal Tribunale. Esisteva dunque un orientamento di legittimità che rendeva corretto il comportamento delle parti e dunque si era in presenza di "un errore scusabile". Errore, ovviamente, nella prospettiva di quell'organo giudicante e, dunque, in senso relativo e non in senso assoluto.
Quello dell'errore scusabile della parte nel processo, perché fondato su un orientamento espresso – soprattutto - dal Giudice di legittimità, è un concetto che non sembra farsi strada, ma che presto o tardi dovrà essere affrontato.
"Giusto processo", infatti, non è solo quello veloce, ma soprattutto quello "giusto". Ed è profondamente ingiusto sanzionare una parte che ha interpretato una norma in senso conforme alla Suprema Corte, la quale ha per legge funzione nomofilattica.
La pronuncia in esame crea un pericoloso vulnus al sistema, in quanto ripropone un contrasto che sembrava risolto, con tutto ciò che ne conseguirà.
Difatti, è facile prevedere che le numerosissime parti (tenuto conto dell'elevato numero di cause nella materia de qua) che si sono attenute all'orientamento espresso della Cassazione nel 1997 e che si sono viste rigettare le richieste istruttorie, reagiranno contro tali pronunce, invocando l'orientamento della Suprema Corte; questo comporterà verosimilmente riforme e cassazioni, con conseguente espletamento di una prova in una fase non deputata a ciò o, peggio, con regressione del processo.
Pronunce come queste, pertanto, fanno aumentare il contenzioso, perché rendono inevitabile la reazione impugnatoria.
Ecco allora che quell'esigenza di celerità, posta a base della decisione, sarà frustrata: ma stavolta veramente.
Vi è poi un altro aspetto, che in questa sede posso solo accennare, ed è quello dell'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Troppo spesso ci si dimentica che ogni qual volta si crea un contrasto giurisprudenziale, di fatto, si realizza un trattamento diseguale dei cittadini:
- Tizio ha potuto esercitare un diritto, Caio no.
- La notifica di Tizio è stata giudicata nulla (con conseguente possibilità di rinnovazione), quella di Caio inesistente.
- Tizio è stato dichiarato decaduto dalla prova, Caio no.
Ogni giorno, nelle corti italiane, stesse identiche situazioni vengono giudicate in maniera diversa. Ci chiediamo allora: per quale ragione deve sempre prevalere il principio della libera interpretazione della norma, rispetto a quello dell'uguaglianza?
Quando due diritti di rango costituzionale vengono in conflitto, è noto, occorre operare un bilanciamento. Si pensi ad esempio al diritto di cronaca e al diritto all'onore e alla reputazione. La giurisprudenza ha faticosamente cercato di bilanciare i due diritti, attraverso il ricorso a parametri quali l'utilità sociale, la continenza e la verità della notizia.
Eppure, rispetto al diritto fondamentale dell'uguaglianza, questo contemperamento non avviene. Il legislatore ha provato timidamente a rimediare (parzialmente) al problema, perché di questo si tratta, attraverso il decreto legislativo n. 40/2006, stabilendo che una volta affermato un principio dalle Sezioni Unite, la sezione semplice non può discostarsene, ma deve eventualmente rimettere la questione, con ordinanza motivata, nuovamente alle Sezioni Unite (cfr. art. 374, comma 3, c.p.c).
Ma è evidente la quasi totale inutilità di un simile rimedio; esso pretende di risolvere il problema, demandando la soluzione agli stessi soggetti che lo creano, cioè i giudici, oltretutto solo nella fase apicale del giudizio. La soluzione, in realtà, dovrebbe essere ricercata fuori dal sistema e non dentro al sistema. Intendo cioè dire che i contrasti di giurisprudenza vanno eliminati alla radice, con leggi di interpretazione autentica, soprattutto nel diritto processuale in cui occorre la certezza delle forme, e non vi siano ragioni sostanziali a dare ragione del contrasto.
Immaginate se alla fine di ogni anno venisse emanata una legge di interpretazione autentica che in un solo colpo eliminasse tutti i contrasti giurisprudenziali. Un simile provvedimento avrebbe importantissime ricadute:
- identiche situazioni sarebbero trattate allo stesso modo;
- diminuirebbero il numero delle impugnazioni e quindi il contenzioso;
- vi sarebbe più certezza del diritto.
Questa potrebbe essere la soluzione migliore, perché il Parlamento è il vero organo cui spetta di assicurare che la legge sia davvero eguale per tutti.
Articolo curato dall'Avv. Mirco Minardi.