La sentenza 11 gennaio 2008, n. 577 merita un approfondito e articolato commento perché le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi su aspetti controversi e questioni di particolare importanza in materia di responsabilità medica.
In essa trovano specificazione e conferma i più recenti percorsi interpretativi, favorevoli al paziente che agisce per il risarcimento, già anticipati dalla giurisprudenza sia di merito che di legittimità.
Si tratta degli obblighi e della qualificazione giuridica della responsabilità della struttura sanitaria e del medico nei confronti del paziente, della ripartizione dell'onere probatorio che deve seguire i criteri fissati dalla materia contrattuale, della prova del nesso di causalità che non può basarsi sulla superata distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato.
Nella nuova prospettiva, tendente a favorire il paziente che agisce per essere risarcito, deve essere la struttura sanitaria ed il medico a dimostrare il corretto adempimento nello svolgimento della loro attività.
Con il configurandosi di “responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico” il paziente danneggiato “deve limitarsi a provare il contratto (o il contatto sociale) e l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di un’affezione ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato”.
Competerà alla struttura sanitaria e/o al medico “dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante.”
Detto per inciso: il tema della nuova qualificazione giuridica della responsabilità dei medici e delle strutture ospedaliere (pubbliche o private) e della continua evoluzione soprattutto giurisprudenziale in fatto di risarcimento dei danni causati ai pazienti è stato già ampiamente affrontato dallo scrivente in un recente articolo, dove è stato pure evidenziato come all’indiscutibile miglioramento nella tutela risarcitoria del malato abbia contribuito il cosiddetto “processo di costituzionalizzazione del diritto civile” (v. Altalex - Responsabilità medica e risarcimento danni: una materia in continua evoluzione).
La vicenda giudiziaria che ha dato luogo alla pronuncia delle Sezioni Unite trae origine da una richiesta di risarcimento dei danni per una malattia (l’epatite “C”) che sarebbe stata contratta con le trasfusioni praticate in occasione di un intervento chirurgico.
Il tribunale di Roma aveva rigettato la domanda ed anche la Corte di appello di Roma aveva rigettato l’appello, ritenendo che “l’attore non aveva provato il nesso di causalità tra l’emotrasfusione e l’epatite C, poiché non era stato provato con la documentazione, tempestivamente prodotta, che alla data del ricovero non fosse portatore già della patologia lamentata, come avevano concluso i c.t.u., mentre non poteva tenersi conto della documentazione relativa ad esami ematici effettuati, prodotta dall’attore in primo grado dopo i termini di cui all’art. 184 c.p.c. e riprodotta in appello”.
Il giudice di appello aveva inoltre ritenuto che nessun valore probatorio potesse attribuirsi al verbale della Commissione medico-ospedaliera, che, ai sensi dell’art. 4 L. n. 210/1992, aveva accertato tale nesso causale tra l’epatite e la trasfusione in questione.
I diversi punti presi in esame dalle Sezioni Unite riguardano:
- la questione della produzione di nuovi documenti in grado di appello;
- la responsabilità della struttura sanitaria pubblica o privata nei confronti del paziente;
- la prova del nesso di causalità, superata la distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato;
- l'inadempimento rilevante nelle obbligazioni così dette di comportamento;
- gli obblighi a carico della struttura ai fini della declaratoria della sua responsabilità, nell'ipotesi del contagio da emotrasfusione eseguita all'interno della struttura sanitaria;
- il valore probatorio del verbale della Commissione medico-ospedaliera di cui all'art. 4 della legge n. 210 del 1992.
a) produzione di nuovi documenti in grado di appello
Il ricorrente ha in primo luogo criticato il fatto che la Corte di appello non ha preso in esame la documentazione prodotta in appello, relativa agli accertamenti sanitari effettuati prima dell’intervento da cui risultava che non era affetto da epatite.
I giudici della Cassazione hanno ritenuto infondata tale censura trattandosi di prove precostituite, come tali rientranti nel divieto di produzione in appello di nuovi mezzi di prova.
A tale proposito viene riportata la massima di una precedente decisione delle stesse S.U. secondo cui “con riguardo alla produzione di nuovi documenti in grado di appello, l'art. 345 c.p.c, terzo comma, va interpretato nel senso che esso fissa sul piano generale il principio della inammissibilità di mezzi di prova "nuovi" - la cui ammissione, cioè, non sia stata richiesta in precedenza - e, quindi, anche delle produzioni documentali, indicando nello stesso tempo i limiti di tale regola, con il porre in via alternativa i requisiti che tali documenti, al pari degli altri mezzi di prova, devono presentare per poter trovare ingresso in sede di gravame (sempre che essi siano prodotti, a pena di decadenza, mediante specifica indicazione degli stessi nell'atto introduttivo del giudizio di secondo grado, a meno che la loro formazione non sia successiva e la loro produzione non sia stata resa necessaria in ragione dello sviluppo assunto dal processo): requisiti consistenti nella dimostrazione che le parti non abbiano potuto proporli prima per cause a esse non imputabili, ovvero nel convincimento del giudice della indispensabilità degli stessi per la decisione. Peraltro, nel rito ordinario, risultando il ruolo del giudice nell'impulso del processo meno incisivo che nel rito del lavoro, l'ammissione di nuovi mezzi di prova ritenuti indispensabili non può comunque prescindere dalla richiesta delle parti (Cass. Sez. Unite, 20/04/2005, n. 8203)”.
b) responsabilità della struttura sanitaria pubblica o privata nei confronti del paziente
Poiché il bene della salute è tutelato quale diritto fondamentale dalla Costituzione, non ci possono essere limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura, pubblica o privata, della struttura sanitaria.
Quindi, per quanto concerne la responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente è irrilevante che si tratti di una casa di cura privata o di un ospedale pubblico “in quanto sostanzialmente equivalenti sono a livello normativo gli obblighi dei due tipi di strutture verso il fruitore dei servizi”.
Per questo motivo “anche nella giurisprudenza si riscontra una equiparazione completa della struttura privata a quella pubblica quanto al regime della responsabilità civile”.
Viene ricordato come, sul presupposto che l'accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto, la Corte di Cassazione “ha costantemente inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nella responsabilità contrattuale, (Cass. n. 1698 del 2006; Cass. n. 9085 del 2006; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 11 marzo 2002, n. 3492; 14 luglio 2003, n. 11001; Cass. 21 luglio 2003, n. 11316)”.
“A sua volta anche l'obbligazione del medico dipendente dalla struttura sanitaria nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul "contatto sociale", ha natura contrattuale (Cass. 22 dicembre 1999, n. 589; Cass. 29.9.2004, n. 19564; Cass. 21.6.2004, n. 11488; Cass. n. 9085 del 2006)”.
La Corte chiarisce che mentre prima (“per diverso tempo”) il presupposto per l'affermazione della responsabilità contrattuale della struttura era l'accertamento di un comportamento colposo del medico dipendente, perché “sulla base dell'applicazione analogica al rapporto paziente-struttura delle norme in materia di contratto di prestazione d'opera intellettuale vigenti nel rapporto medico-paziente”, la responsabilità della struttura sanitaria veniva “appiattita” su quella del medico; più recentemente, invece, la giurisprudenza ha riconsiderato il rapporto paziente - struttura “in termini autonomi dal rapporto paziente-medico, e riqualificato come un autonomo ed atipico contratto a prestazioni corrispettive (da taluni definito contratto di spedalità, da altri contratto di assistenza sanitaria) al quale si applicano le regole ordinarie sull'inadempimento fissate dall'art. 1218 c.c.”.
Conseguenza ne è stata “l'apertura a forme di responsabilità autonome dell'ente, che prescindono dall'accertamento di una condotta negligente dei singoli operatori, e trovano invece la propria fonte nell'inadempimento delle obbligazioni direttamente riferibili all'ente”.
Si tratta di un percorso interpretativo, anticipato dalla giurisprudenza di merito, che “ha trovato conferma in una sentenza di queste Sezioni Unite (1.7.2002, n. 9556, seguita poi da altre delle sezioni semplici, Cass. n. 571 del 2005; Cass. n. 1698 del 2006) che si è espressa in favore di una lettura del rapporto tra paziente e struttura (anche in quel caso, privata) che valorizzi la complessità e l'atipicità del legame che si instaura, che va ben oltre la fornitura di prestazioni alberghiere, comprendendo anche la messa a disposizione di personale medico ausiliario, paramedico, l'apprestamento di medicinali e di tutte le attrezzature necessarie anche per eventuali complicazioni”.
In virtù dell’autonomo contratto, che si potrebbe definire di "assistenza sanitaria" o “spedalità”, la struttura deve quindi fornire al paziente una prestazione assai articolata, “che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi cd. di protezione ed accessori”.
Ne deriva che la responsabilità della struttura per inadempimento “si muove sulle linee tracciate dall'art. 1218 c.c., e, per quanto concerne le obbligazioni mediche che essa svolge per il tramite dei medici propri ausiliari, l'individuazione del fondamento di responsabilità dell'ente nell'inadempimento di obblighi propri della struttura consente quindi di abbandonare il richiamo, alquanto artificioso, alla disciplina del contratto d'opera professionale e di fondare semmai la responsabilità dell'ente per fatto del dipendente sulla base dell'art. 1228 c.c.”.
In base a tale ricostruzione del rapporto struttura – paziente, che la nuova decisione condivide e conferma “si può avere una responsabilità contrattuale della struttura verso il paziente danneggiato non solo per il fatto del personale medico dipendente, ma anche del personale ausiliario, nonché della struttura stessa (insufficiente o inidonea organizzazione)”.
Dalla riconosciuta autonomia del rapporto struttura-paziente rispetto al rapporto paziente-medico, discendono importanti conseguenze sul piano della affermazione di responsabilità della struttura ospedaliera, oltre che sul contenuto degli oneri probatori, considerato che “prescinde dalla responsabilità o dall'eventuale mancanza di responsabilità del medico in ordine all'esito infausto di un intervento o al sorgere di un danno che, come nel caso di specie, non ha connessione diretta con l'esito dell'intervento chirurgico”.
In particolare, non ha più rilevanza ai fini della individuazione della natura della responsabilità della struttura sanitaria “se il paziente si sia rivolto direttamente ad una struttura sanitaria del SSN, o convenzionata, oppure ad una struttura privata o se, invece, si sia rivolto ad un medico di fiducia che ha effettuato l'intervento presso una struttura privata. In tutti i predetti casi è ipotizzabile la responsabilità contrattuale dell'Ente”.
Quanto al riparto degli oneri probatori:“Inquadrata nell'ambito contrattuale la responsabilità della struttura sanitaria e del medico, nel rapporto con il paziente, il problema del riparto dell'onere probatorio deve seguire i criteri fissati in materia contrattuale, alla luce del principio enunciato in termini generali dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533, in tema di onere della prova dell'inadempimento e dell'inesatto adempimento”.
Il Collegio giudicante dichiara apertis verbis di condividere pienamente il principio enunciato in precedenza dalle stesse Sezioni Unite, “secondo cui il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo, costituito dall'avvenuto adempimento”.
Aggiunge che facendo valere lo stesso principio con riguardo all'inesatto adempimento, “al creditore istante è sufficiente la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto, esatto adempimento”.
Applicando tale principio all'onere della prova nelle cause di responsabilità professionale del medico, “la giurisprudenza delle sezioni semplici di questa Corte, ha ritenuto che gravasse sull'attore (paziente danneggiato che agisce in giudizio deducendo l'inesatto adempimento della prestazione sanitaria) oltre alla prova del contratto, anche quella dell'aggravamento della situazione patologica o l'insorgenza di nuove patologie nonché la prova del nesso di causalità tra l'azione o l'omissione del debitore e tale evento dannoso, allegando il solo inadempimento del sanitario. Resta a carico del debitore l'onere di provare l'esatto adempimento, cioè di aver tenuto un comportamento diligente (Cass. n. 12362 del 2006; Cass. 11.11.2005, n. 22894; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 3.8.2004, n. 14812)”.
c) la prova del nesso di causalità
Il punto relativo alla prova del nesso di causalità non viene condiviso, nei termini in cui è stato enunciato dal giudice di merito, perché implicitamente basato su una “distinzione” che secondo il più recente orientamento giurisprudenziale è priva di incidenza sul regime di responsabilità del professionista.
Si tratta della usuale e tipica distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato.
La nuova pronuncia, richiamando precedenti decisioni delle stesse Sezioni Unite, conferma il fatto che deve essere superata la tradizionale distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato quanto alla prova della responsabilità del medico verso il paziente; perché, “se può avere una funzione descrittiva, è dogmaticamente superata, quanto meno in tema di riparto dell'onere probatorio dalla predetta sentenza delle S.U. n. 13533/2001 (vedasi anche S.U. 28.7.2005, n. 15781)”.
La dicotomia tra obbligazione di mezzi e di risultato, operante soltanto all'interno della categoria delle obbligazioni di fare “ha originato contrasti sia in ordine all'oggetto o contenuto dell'obbligazione, sia in relazione all'onere della prova e, quindi, in definitiva, allo stesso fondamento della responsabilità del professionista”.
L’impostazione secondo cui nelle obbligazioni di mezzi la prestazione dovuta prescinde da un particolare esito positivo dell'attività del debitore, mentre nelle obbligazioni di risultato ciò che importa è il conseguimento del risultato “non è immune da profili problematici, specialmente se applicata proprio alle ipotesi di prestazione d'opera intellettuale, in considerazione della struttura stessa del rapporto obbligatorio e tenendo conto, altresì, che un risultato è dovuto in tutte le obbligazioni”.
“In realtà, in ogni obbligazione si richiede la compresenza sia del comportamento del debitore che del risultato, anche se in proporzione variabile, sicché molti Autori criticano la distinzione poiché in ciascuna obbligazione assumono rilievo così il risultato pratico da raggiungere attraverso il vincolo, come l'impegno che il debitore deve porre per ottenerlo”.
Dall’esame della casistica giurisprudenziale, fanno osservare le S.U., emerge come la distinzione tra obbligazione di mezzi e di risultato è stata spesso utilizzata al fine di risolvere problemi di ordine pratico, quali la distribuzione dell'onere della prova e l'individuazione del contenuto dell'obbligo, ai fini del giudizio di responsabilità.
Per ampliare la responsabilità contrattuale del professionista spesso si è compiuta “una sorta di metamorfosi dell'obbligazione di mezzi in quella di risultato, attraverso l'individuazione di doveri di informazione e di avviso, definiti accessori ma integrativi rispetto all'obbligo primario della prestazione, ed ancorati a principi di buona fede, quali obblighi di protezione, indispensabili per il corretto adempimento della prestazione professionale in senso proprio”.
Sotto il profilo dell'onere della prova, la distinzione (talvolta costruita con prevalente attenzione alla responsabilità dei professionisti intellettuali e dei medici in particolare) prima che fosse “sottoposta a revisione sia da parte della giurisprudenza che della dottrina” serviva a sostenere che mentre nelle obbligazioni di mezzi sul creditore incombeva l'onere della prova che il mancato risultato era dipeso da scarsa diligenza, nelle obbligazioni di risultato, invece, sul debitore incombeva l'onere della prova che il mancato risultato era dipeso da causa a lui non imputabile.
Sul punto viene ancora ricordato come le stesse S.U. hanno affermato che il meccanismo di ripartizione dell'onere della prova ai sensi dell'art. 2697 c.c. in materia di responsabilità contrattuale “è identico, sia che il creditore agisca per l'adempimento dell'obbligazione, ex art. 1453 cc., sia che domandi il risarcimento per l'inadempimento contrattuale, ex art. 1218 cc., senza richiamarsi in alcun modo alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato” (sent. n. 13533/2001).
d) l'inadempimento rilevante nelle obbligazioni così dette di comportamento
Dichiarando di aderire al principio espresso da quella prima decisione del 2001, le S.U. aggiungono che “l'inadempimento rilevante nell'ambito dell'azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni così dette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno”.
“Ciò comporta che l'allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno”.
“Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno”.
“Nella fattispecie, quindi, avendo l'attore provato il contratto relativo alla prestazione sanitaria (ed il punto non è in contestazione) ed il danno assunto (epatite), allegando che i convenuti erano inadempienti avendolo sottoposto ad emotrasfusione con sangue infetto, competeva ai convenuti fornire la prova che tale inadempimento non vi era stato, poiché non era stata effettuata una trasfusione con sangue infetto, oppure che, pur esistendo l'inadempimento, esso non era eziologicamente rilevante nell'azione risarcitoria proposta, per una qualunque ragione, tra cui quella addotta dell'affezione patologica già in atto al momento del ricovero”.
e) gli obblighi a carico della struttura nell'ipotesi del contagio da emotrasfusione
Quanto all'ipotesi del contagio da emotrasfusione eseguita all'interno della struttura sanitaria, le S.U. precisano che “gli obblighi a carico della struttura ai fini della declaratoria della sua responsabilità, vanno posti in relazione sia agli obblighi normativi esistenti al tempo dell'intervento e relativi alle trasfusioni di sangue, quali quelli relativi alla identificabilità del donatore e del centro trasfusionale di provenienza (cd. tracciabilità del sangue) che agli obblighi più generali di cui all'art. 1176 cc. nell'esecuzione delle prestazioni che il medico o la struttura possono aver violato nella singola fattispecie”.
Quindi, la sentenza impugnata, nel porre a carico del paziente (creditore) la prova che al momento del ricovero esso non fosse già affetto da epatite, “ha violato i principi in tema di riparto dell'onere probatorio, fissati in tema di azione per il risarcimento del danno da inadempimento contrattuale”.
Peraltro, il dato relativo alle patologie in corso, “doveva già emergere dai dati anamnestici prossimi e dagli accertamenti ematici di laboratorio, cui il paziente doveva essere sottoposto prima dell'intervento chirurgico e della trasfusione; dati che dovevano essere riportati sulla cartella clinica”.
Viene a questo punto richiamata la precedente giurisprudenza di legittimità (Cass. 21.7.2003, n. 11316; Cass. 23.9.2004, n. 19133) secondo cui la difettosa tenuta della cartella clinica non può risolversi in danno dei pazienti e cioè di coloro che vantino un diritto in relazione alla prestazione sanitaria, ove risulti provata l'idoneità della condotta a provocare il danno alla salute.
Anzi, l’irregolare o non corretta tenuta della cartella clinica, nel quadro dei principi in ordine alla distribuzione dell'onere della prova, consente “il ricorso alle presunzioni, come avviene in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato”.
In tale prospettiva, rilevanza viene ad assumere il principio della cosiddetta "vicinanza alla prova", e cioè alla “effettiva possibilità per l'una o per l'altra parte di offrirla”.
Anche se la decisione in commento non la riporta, è bene ricordare che facendo riferimento al principio “di riferibilità o vicinanza della prova”, la stessa Cassazione aveva stabilito che “compete al medico, che è in possesso degli elementi utili per paralizzare la pretesa del creditore, provare l'incolpevolezza dell'inadempimento (ossia della impossibilità della prestazione per causa non imputabile al debitore) e la diligenza nell'adempimento, tanto più se l'esecuzione della prestazione consista nell'applicazione di regole tecniche, sconosciute al creditore in quanto estranee al bagaglio della comune esperienza e specificamente proprie di quello del debitore” (v. Cass. civ. Sez. III, 21-06-2004, n. 11488).
f) valore probatorio del verbale della Commissione di cui all'art. 4 della legge n. 210 del 1992
L’art. 4 della legge n. 210 del 1992, stabilisce le funzioni che la commissione medico-ospedaliera di cui all'art 165 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092, composta da ufficiali medici ed istituita presso ospedali militari, deve assolvere al fine della concessione dell’indennizzo previsto dalla stessa legge, a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati.
In particolare, detta Commissione:
- esprime il giudizio sanitario sul nesso causale tra la vaccinazione, la trasfusione, la somministrazione di emoderivati, il contatto con il sangue e derivati in occasione di attività di servizio e la menomazione dell'integrità psico-fisica o la morte;
- redige un verbale degli accertamenti eseguiti e formula il giudizio diagnostico sulle infermità e sulle lesioni riscontrate;
- esprime il proprio parere sul nesso causale tra le infermità o le lesioni e la vaccinazione, la trasfusione, la somministrazione di emoderivati, il contatto con il sangue e derivati in occasione di attività di servizio".
La Corte di merito aveva ritenuto privo di valore probatorio il verbale della Commissione medico-ospedaliera, che, ai sensi dell’art. 4 L. n. 210/1992, aveva accertato il nesso causale tra l’epatite e la trasfusione effettuata al paziente.
Le S.U. hanno stabilito che “al di fuori del procedimento amministrativo per la concessione dell'indennizzo di cui alla legge, tali verbali hanno lo stesso valore di qualunque altro verbale redatto da un pubblico ufficiale fuori dal giudizio civile ed in questo prodotto”.
“Pertanto essi fanno prova, ex art. 2700 c.c., dei fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza, o essere stati dalla stessa compiuti, mentre le valutazioni, le diagnosi o comunque le manifestazioni di scienza o di opinione in essi contenute costituiscono materiale indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice, il quale può valutarne l'importanza ai fini della prova, ma non può mai attribuire a loro il valore di vero e proprio accertamento (Cass. 20/07/2004, n. 13449; Cass. 25/06/2003, n. 10128; Cass. 25/06/2003, n. 10128; Cass. 12/05/2003, n. 7201)”.
In relazione all’accoglimento del ricorso, esclusa la prima censura secondo cui erratamente il giudice di appello non aveva tenuto conto della documentazione sanitaria esibita in grado di appello, è stata cassata l'impugnata sentenza e la causa è stata rinviata, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della corte di appello di Roma, che dovrà uniformarsi al principio sopra riportato quanto ai verbali della Commissione medico-ospedaliera di cui all'art. 4 della L. n. 210/1992 ed ai fini del riparto dell'onere probatorio dovrà considerare che “l'attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare il contratto (o il contatto sociale) e l'aggravamento della patologia o l'insorgenza di un'affezione ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato”.
“Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante”.
In altri termini, il giudice del rinvio dovrà decidere considerando che per la struttura sanitaria si configura una “responsabilità contrattuale” e per il medico una responsabilità professionale da “contatto sociale”.