La clausola della separazione consensuale istitutiva dell'impegno futuro di vendita dell'immobile adibito a casa coniugale, in quanto tale assegnata (in quella medesima sede) ad un coniuge nella veste di affidatario della prole minore, lungi dal risultare "inscindibile" rispetto a quest'ultima pattuizione (relativa appunto all'assegnazione dell'abitazione familiare) siccome capace di determinarne il venir meno o, se non altro, la durata, si configura, piuttosto, come del tutto "autonoma" rispetto al regolamento concordato dai coniugi in ordine alla stessa assegnazione, così da riguardare un profilo sicuramente compatibile con siffatta assegnazione in quanto sostanzialmente non lesivo della sua rispondenza all'interesse dei figli tutelato attraverso detto istituto e da soggiacere, quindi, alla regola dell'immodificabilità, nelle forme e secondo la procedura di cui agli artt. 710 e 711 c.p.c., di simili negozi.
Questo il principio di diritto espresso dalla Prima Sezione della Corte di Cassazione con la sentenza in oggetto, in cui gli ermellini hanno affrontato il tema, più che mai attuale, della natura degli accordi "accessori" stipulati dai coniugi in sede di separazione, con particolare riferimento alla possibilità di proporre ricorso ai sensi dell'art. 710 c.p.c. per la modifica degli stessi.
Nella vicenda in esame, la moglie affidataria della prole chiedeva la modifica dell'accordo concluso con il marito in sede di separazione ed avente ad oggetto la futura vendita dell'immobile adibito a residenza familiare, in quanto incidente sul diritto indisponibile dei figli (nel caso di specie una bambina in tenera età) a continuare ad abitare nel luogo scelto come centro della propria vita familiare ed affettiva.
Decidendo sul punto, i giudici di Piazza Cavour hanno affermato che, applicandosi alla separazione consensuale l'art. 156, comma 7, c.c., in via analogica, integrano gli estremi dei "giustificati motivi", i quali consentono la modifica delle condizioni stabilite i fatti nuovi sopravvenuti, che incidono sulla situazione esistente nel momento in cui gli accordi sono stati conclusi, cosicchè, rispetto all'intervenuta separazione, non sono deducibili con il ricorso ex art. 710 c.p.c. né gli eventuali vizi del consenso né la sua simulazione.
Al riguardo, la Corte ha evidenziato che il presupposto per poter proporre il predetto ricorso è l'allegazione dell'esistenza di una valida separazione consensuale omologata, di per sé equiparabile alla separazione giudiziale con sentenza passata in giudicato, di tal ché la denuncia di eventuali vizi dell'accordo di separazione, così come la sua simulazione devono essere fatte valere nelle forme del giudizio ordinario, attraverso l'esercizio dell'azione di annullamento della separazione consensuale omologata per vizi della volontà, applicabile ai negozi concernenti i rapporti giuridici non patrimoniali, nel cui ambito vanno annoverati quelli di diritto familiare.
Al contempo, il Collegio ha richiamato i principi già espressi in precedenti pronunce, distinguendo tra contenuto "necessario" ed "eventuale" o "accessorio" dell'accordo di separazione.
In particolare, ha ribadito che i negozi c.d. accessori non trovano nella separazione consensuale la propria causa, essendo soltanto "occasionati" da essa, e non configurano, quindi, convenzioni matrimoniali ex art. 162 c.c., in quanto privi dei requisiti tipiche delle stesse (il sostanziale parallelismo di volontà e interessi, la convivenza coniugale ed il riferimento ad una generalità di beni, anche di futura acquisizione).
Tali negozi rappresentano, come evidenziato nella pronuncia in oggetto, espressione dell'autonomia contrattuale, nell'alveo della quale devono essere ricondotti, nei limiti in cui non determino una lesione di diritti inderogabili della persona.
Nell'ambito dei negozi de quibus, hanno osservato gli ermellini, rientra l'accordo con il quale i coniugi stabiliscono il trasferimento di beni immobili, in particolare di quello destinato a casa familiare, che costituisce un contratto atipico ai sensi dell'art. 1322 c.c..
I giudici di legittimità hanno, quindi, precisato che l'assegnazione della casa familiare disposta in favore del coniuge in occasione della separazione (giudiziale o consensuale) o in sede di divorzio è opponibile anche se non sia stata trascritta al terzo acquirente in data successiva, per nove anni dalla data dell'assegnazione, ovvero anche trascorsi i nove anni quando il titolo sia stato in precedenza trascritto, sussistendo un vincolo di destinazione dell'immobile a tutela della prole, impresso con l'assegnazione.
Alla luce di tali osservazioni, la Corte ha statuito che la pattuizione relativa alla futura vendita dell'immobile adibito a casa familiare è immodificabile secondo le forme e la procedura previste dagli artt. 710 e 711 c.p.c., in quanto del tutto "autonoma" rispetto al regolamento pattuito dai coniugi in ordine alla stessa assegnazione, così da concernere un profilo compatibile con siffatta assegnazione, perchè non lesivo della sua rispondenza all'interesse della prole, protetto mediante il predetto istituto