Il caso
Tizio, dirigente della società sportiva “Alfa”, e Caio, calciatore presso la medesima (entrambi tesserati della Figc), davano luogo, dopo una competizione sportiva, ad episodi di violenza incominciati sul campo da gioco e continuati all’interno degli spogliatoi.
Per tali motivi, il Questore di Caserta, con provvedimento datato 6 giugno 2006, disponeva nei confronti di Tizio e di Caio il divieto di accesso ai luoghi in cui si svolgono attività sportive, per la durata di 18 mesi, prescrivendo ai medesimi l’obbligo di presentarsi presso il comando stazione dei carabinieri in concomitanza con gli incontri di calcio disputati dalla società “Alfa”.
Il Gip del Tribunale di S. Maria Capua Vetere, con ordinanza depositata in data 9 giugno 2006, decideva di non convalidare il provvedimento del Questore, evidenziando come i provvedimenti di cui all’art. 6 della legge 401/1989 non dovessero applicarsi alle condotte di violenza poste in essere nei campi da gioco, o nelle loro immediate vicinanze, da persone che fossero tesserate di federazioni sportive, nei confronti delle quali già esistono possibilità di specifiche sanzioni da parte dei competenti organi federali (squalifiche, inibizioni ed altro).
Senza considerare come, nel caso di specie, sarebbe possibile applicare la scriminante non codificata dell’attività sportiva violenta, sebbene gli episodi di violenza si siano realizzati in prossimità dei campi da gioco.
Avverso tale provvedimento propone ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di S. Maria Capua Vetere, denunciando violazione di legge in relazione all’erronea applicazione dell’art. 6 della legge 401 del 1989 con riferimento a soggetti tesserati di una federazione sportiva.
Secondo il ricorrente, in particolare, la non applicabilità della normativa in commento al caso di specie comporterebbe una sorta di rinuncia, da parte dello Stato, alla propria giurisdizione in favore delle federazioni sportive, il che non è possibile, se si considera la diversità tra la tutela dell’ordine pubblico, affidata allo Stato, e la repressione di condotte contrastanti con la regolamentazione sportiva, affidata alle federazioni sportive.
La scriminante non codificata dell’attività sportiva violenta, inoltre, non si potrebbe applicare nelle ipotesi, come quella in rassegna, in cui le condotte di violenza siano poste in essere al di fuori della competizione sportiva propriamente detta, in un contesto spazio-temporale ben separato dalla medesima.
La normativa Legge n. 401/1989 Art. 6, primo comma (Divieto di accesso ai luoghi dove si svolgono manifestazioni sportive) Nei confronti delle persone che risultano denunciate o condannate anche con sentenza non definitiva nel corso degli ultimi cinque anni per uno dei reati di cui all’articolo 4, primo e secondo comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110, all’articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, all’articolo 2, comma 2, del decreto legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, all’articolo 6bis, commi 1 e 2, e all’articolo 6ter della presente legge, ovvero per aver preso parte ad episodi di violenza su persone o cose in occasione o a causa di manifestazioni sportive, o che nelle medesime circostanze abbiano incitato, inneggiato o indotto alla violenza, il questore può disporre il divieto di accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive specificamente indicate, nonché a quelli, specificamente indicati, interessati alla sosta, al transito o al trasporto di coloro che partecipano o assistono alle manifestazioni medesime. Il divieto di cui al presente comma può essere disposto anche per le manifestazioni sportive che si svolgono all’estero, specificamente indicate, ovvero dalle competenti Autorità degli altri Stati membri dell’Unione europea per le manifestazioni sportive che si svolgono in Italia. Il divieto di cui al presente comma può essere, altresì, disposto nei confronti di chi, sulla base di elementi oggettivi, risulta avere tenuto una condotta finalizzata alla partecipazione attiva ad episodi di violenza in occasione o a causa di manifestazioni sportive o tale da porre in pericolo la sicurezza pubblica in occasione o a causa delle manifestazioni stesse. |
Inquadramento della problematica
Con la pronuncia in commento la Suprema Corte di cassazione si occupa della tematica della scriminante non codificata dell’attività sportiva violenta. Molto spesso, la carica agonistica, collegata all’espletamento di determinate attività sportive, caratterizzate dallo stretto contatto fisico tra i partecipanti, può comportare eventi dannosi per la salute e l’integrità fisica di coloro che prendono parte alla competizione.
L’istituto dell’attività sportiva violenta si inserisce all’interno del problema, particolarmente dibattuto, dell’ammissibilità delle scriminanti c.d. tacite, ovvero di quelle particolari cause di giustificazione non previste espressamente dal Legislatore.
Il tema in questione, oltre a presentare delicati risvolti applicativi in relazione a settori rispetto ai quali spesso si invoca l’applicazione dell’istituto – fra i quali l’attività sportiva violenta, appunto – involge particolari risvolti in merito al rapporto con alcuni dei fondamentali principi del nostro diritto penale moderno, fra i quali quelli di legalità e di tassatività della fattispecie.
Per quanto attiene alla scriminante dell’attività sportiva violenta, in particolare, l’orientamento dominante ritiene che il nostro ordinamento giuridico non possa che guardare con estremo favore tale tipologia di pratica, posta la sua indubbia rilevanza sociale, nonostante, in determinate situazioni, possa essere foriera di pregiudizi per la salute delle persone che vi prendano parte.
Affinché ciò sia possibile la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie richiedono, però, la sussistenza di alcuni presupposti. In primo luogo è necessario il consenso dell’atleta, in quanto lo sport si caratterizza per la libera partecipazione del medesimo alla competizione. Secondariamente è necessario l’accertamento del rispetto delle regole del gioco. In tal senso, l’impostazione dominante ritiene che il campo di applicazione della scriminante possa essere esteso anche in presenza di una violazione di queste regole, purché non si addivenga al superamento del c.d. rischio consentito in quella determinata pratica sportiva.
In relazione al caso di specie, ci si domanda se la scriminante in questione possa trovare applicazione anche nel caso di condotte, dirette a turbare l’attività sportiva, che si siano verificate, anche solo in parte, lontano dal campo da gioco, in un momento, cioè, nel quale la competizione agonistica aveva avuto oramai termine.
Appare del tutto evidente, infatti, che tale situazione si presenta del tutto diversa da quella in cui la condotta, sebbene non rispettosa delle regole del gioco, sia finalisticamente inserita in un contesto di attività sportiva. Nell’episodio in esame, a ben vedere, sembra che la competizione sportiva abbia costituito solo l’occasione della condotta violenta.
Secondariamente, i giudici si domandano se, una volta correttamente individuato il bene giuridico tutelato dalla legge 401/89, questa possa trovare applicazione anche nei confronti di soggetti tesserati presso federazioni sportive.
La soluzione accolta dalla Suprema Corte
In relazione alla prima problematica la Corte così ragiona:
- Secondo l’orientamento fatto proprio dalla dottrina dominante, nel caso di attività sportiva violenta, l’atleta non può mai invocare la scriminante non codificata in questione nel caso in cui cagioni volontariamente delle lesioni all’avversario, all’interno di un contesto nel quale l’attività sportiva abbia costituito solo il pretesto della condotta lesiva della sfera giuridica altrui.
- In siffatta ipotesi, infatti, appare evidente come l’atteggiamento dell’atleta non possa nemmeno configurare un illecito sportivo. Basti pensare, a titolo d’esempio, al caso del pugno sferrato al concorrente a gioco fermo oppure in una zona ben lontana dal campo da gioco.
- A tale soluzione addivengono anche i giudici della Terza Sezione Penale della cassazione, secondo i quali la tesi esposta dal Gip, tendente a ritenere applicabile la scriminante al caso di specie, appare del tutto errata, in quanto “si pone quale applicazione inammissibile al fenomeno delle turbative nello svolgimento di manifestazioni sportive del principio generale per il quale lo svolgimento di attività sportive può divenire causa di giustificazione (generica o specifica) per condotte astrattamente costituenti reato”.
- L’attività sportiva violenta si inserisce nel novero delle attività a rischio consentito, ovvero quelle situazioni le quali, sebbene siano foriere di possibili danni per i consociati, sono accettate dall’ordinamento, in quanto ritenute utili per la collettività. Per rischio consentito si deve intendere quell’area che, sebbene strettamente collegata all’esercizio di un’attività sportiva, non è delimitata dall’assoluto rispetto del regolamento sportivo, ma opera nel più ampio ambito del rischio collegato alle azioni di gioco che rappresentano il normale svolgimento delle competizioni sportive.
- Come evidenziato anche dal giudice nomofilattico “tale principio, però, è valido solo per condotte che abbiano l’effetto di offendere, come oggetto giuridico, l’integrità fisica o morale dei soggetti coinvolti nell’attività sportiva e la causa di giustificazione copre soltanto quell’attività che si possa ritenere connessa strettamente, specie sotto il profilo dell’elemento soggettivo, alle finalità del gioco”.
- Di conseguenza, una condotta che non sia rispettosa delle regole del gioco, ma che sia inserita in un contesto di un’attività sportiva e che sia connessa alla pratica dello sport, è cosa ben diversa da quella tenuta in ipotesi in cui la gara agonistica abbia rappresentato solo l’occasione dell’esercizio della condotta violenta.
Per quanto attiene alla seconda problematica, la Corte perviene alla seguente conclusione:
- Le misure di cui all’art. 6 della legge 401/1989, debbono trovare applicazione al caso di specie, essendo del tutto irrilevante il fatto che gli imputati fossero soggetti tesserati a determinate federazioni sportive.
- La finalità della normativa in questione, infatti, deve essere individuata nell’esigenza di tutelare l’ordine pubblico, evidentemente compromesso da episodi di turbativa dell’attività sportiva effettuata con condotte violente.
- Per tali motivi, la Suprema Corte di cassazione annulla l’ordinanza impugnata.