Cassazione civile , sez. I, sentenza 16.10.2007 n° 21748
L’intera vicenda giudiziaria, che scaturisce dalla richiesta di sospensione dell’alimentazione e idratazione artificiali di una malata in stato vegetativo permanente, ruota intorno al diritto di rifiutare i trattamenti sanitari, basato non su un diritto generale ed astratto ad accelerare la morte, ma sul diritto all’integrità del corpo e a non subire interventi invasivi indesiderati.
Diritto di rifiutare fondato “sulla libera disponibilità del bene salute da parte del diretto interessato nel possesso delle sue capacità di intendere e di volere”.
Il Collegio ha ritenuto che la salute dell’individuo non può essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva; quindi, di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, assolto il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale, può esserci ancora spazio “per una strategia della persuasione, perché il compito dell’ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza”, ma quando il rifiuto abbia tali caratteristiche “non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico”.
Il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente non si può disattendere neppure quando “da esso consegua il sacrificio del bene della vita”.
Come tutti i diritti di libertà, il diritto del singolo alla salute, esclusi i trattamenti sanitari previsti dalla legge come obbligatori, “implica la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell’interessato, finanche di lasciarsi morire”.
Aggiunge, la Cassazione, che “la soluzione, tratta dai principi costituzionali, relativa al rifiuto di cure ed al dovere del medico di astenersi da ogni attività diagnostica o terapeutica se manchi il consenso del paziente, anche se tale astensione possa provocare la morte, trova conferma nelle prescrizioni del codice di deontologia medica: ai sensi del citato art. 35, «in presenza di documentato rifiuto di persona capace», il medico deve «in ogni caso» «desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona»”.
Il Collegio fa pure notare come la stessa soluzione è legislativamente sancita in altri ordinamenti europei ed adottata dalla Corte di Strasburgo e dalla Corte Suprema degli Stati Uniti.
Secondo la recente decisione “deve escludersi che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita” perché “il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia”.
Tale rifiuto, anche quando conduce alla morte, deriva una precisa scelta del malato, desideroso che la malattia segua il suo corso naturale e non può essere scambiato per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte (eutanasia).
Quindi, “insorgendo il dovere giuridico del medico di rispettare la volontà del paziente contraria alle cure” non sussiste la sua responsabilità per omessa cura.
Più precisamente, fondandosi l’obbligo giuridico di praticare o continuare la terapia sul consenso del malato, questo vincolo cessa “quando il consenso viene meno in seguito al rifiuto delle terapie da parte di costui”.
Nella nuova prospettiva indicata dalla Corte “il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale”.
Nel ribadire il diritto alla libertà di scelta del malato cosciente, rispetto alle terapie ed alla loro eventuale sospensione, ha riconosciuto la validità del principio anche nel caso in cui la persona non sia più in grado di manifestare la sua volontà ma lo abbia fatto quando ne aveva la possibilità.
Di conseguenza, il giudice può “autorizzare la disattivazione” delle apparecchiature che tengono in vita una persona in “stato vegetativo persistente” quando ha la prova che il malato lo abbia chiesto.
La decisione può considerarsi una inequivocabile legittimazione delle “dichiarazioni di volontà anticipate” (testamento biologico), che costituirebbero una prova evidente della volontà del malato.
Occorre poi considerare che nel caso deciso in effetti mancavano dichiarazioni scritte o testamento di vita ed è stato riconosciuto valore alle testimonianze sui desideri della ragazza precedentemente espressi.
Nel caso in cui il soggetto adulto non sia in grado di manifestare la propria volontà a causa del suo stato di totale incapacità, la Cassazione sembra differenziare nettamente la situazione “privilegiata” di chi “abbia, prima di cadere in tale condizione, allorché era nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, specificamente indicato, attraverso dichiarazioni di volontà anticipate, quali terapie egli avrebbe desiderato ricevere e quali invece avrebbe inteso rifiutare nel caso in cui fosse venuto a trovarsi in uno stato di incoscienza”.
Nella vicenda decisa anche se mancavano specifiche indicazioni scritte, la Cassazione ha sostanzialmente dato valore alla “ricerca della presunta volontà della persona in stato di incoscienza – ricostruita, alla stregua di chiari, univoci e convincenti elementi di prova, non solo alla luce dei precedenti desideri e dichiarazioni dell’interessato, ma anche sulla base dello stile e del carattere della sua vita, del suo senso dell’integrità e dei suoi interessi critici e di esperienza”.
In mancanza di “dichiarazioni anticipate”, è stata riconosciuta validità all’attività del rappresentante in quando “rivolta, esclusivamente, a dare sostanza e coerenza all’identità complessiva del paziente e al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona”.
In questa prospettiva il tutore può assumere “il compito di completare questa identità complessiva della vita del paziente, ricostruendo la decisione ipotetica che egli avrebbe assunto ove fosse stato capace; e, in questo compito, umano prima che giuridico, non deve ignorare il passato dello stesso malato, onde far emergere e rappresentare al giudice la sua autentica e più genuina voce”.
Per questi motivi, in sostanza, nel caso di specie si è ritenuto che la Costituzione, “basata sul pluralismo dei valori“ legittimasse il tutore di chi non poteva più esprimersi a chiedere di interrompere il trattamento sanitario.
A proposito della interruzione del trattamento, è stato precisato che “al giudice non può essere richiesto di ordinare il distacco del sondino nasogastrico” e quindi di sospendere “un trattamento sanitario, come quello di specie, che, in sé, non costituisce oggettivamente una forma di accanimento terapeutico, e che rappresenta, piuttosto, un presidio proporzionato rivolto al mantenimento del soffio vitale”, tuttavia “l’intervento del giudice esprime una forma di controllo della legittimità della scelta nell’interesse dell’incapace”; e, in base alle circostanze del caso concreto, può estrinsecarsi “nell’autorizzare o meno la scelta compiuta dal tutore”.
La Cassazione ha in concreto annullato con rinvio, il decreto della Corte di Appello di Milano con il quale era stata respinta per l’ennesima volta la richiesta del padre (quale tutore della figlia interdetta) di staccare il sondino che da 15 anni continua ad alimentare un corpo in stato vegetativo persistente e permanente.
Il decreto è stato annullato perché la Corte di merito ha omesso di ricostruire la presunta volontà della ragazza in stato vegetativo e di “dare rilievo ai desideri da lei precedentemente espressi, alla sua personalità, al suo stile di vita e ai suoi più intimi convincimenti”.
A fronte dell’indagine istruttoria, nella quale è stato appurato, per testi, che l’inferma, “esprimendosi su una situazione prossima a quella in cui ella stessa sarebbe venuta, poi, a trovarsi, aveva manifestato l’opinione che sarebbe stato per lei preferibile morire piuttosto che vivere artificialmente in una situazione di coma”, la Corte territoriale “si è limitata a osservare che quei convincimenti, manifestatisi in un tempo lontano”, quando ancora la ragazza era in piena salute, “non potevano valere come manifestazione di volontà idonea, equiparabile ad un dissenso in chiave attuale in ordine ai trattamenti praticati sul suo corpo”.
I giudici d’appello, secondo la Cassazione, avrebbero dovuto accertare “se la richiesta di interruzione del trattamento formulata dal padre in veste di tutore riflettesse gli orientamenti di vita della figlia”, verificando se le dichiarazioni dei testimoni “della cui attendibilità non hanno peraltro dubitato”, pur “ritenute inidonee a configurarsi come un testamento di vita”, valessero comunque a delineare, unitamente alle altre risultanze dell’istruttoria, la personalità della ragazza ed il suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, “l’idea stessa di dignità della persona, alla luce dei suoi valori di riferimento e dei convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici che orientavano le sue determinazioni volitive”.
Tale accertamento dovrà essere effettuato dal giudice del rinvio, tenendo conto di tutti gli elementi emersi dall’istruttoria e della convergente posizione assunta dalle parti in giudizio (tutore e curatore speciale) nella ricostruzione della personalità della ragazza.
Nel caso di specie in cui lo stato vegetativo permanente, si protrae da oltre quindici anni con conseguente radicale incapacità dell’inferma di rapportarsi al mondo esterno, secondo la Cassazione, il giudice può autorizzare la disattivazione del presidio sanitario (sondino nasogastrico che provvede alla nutrizione ed idratazione) “su richiesta del tutore che la rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale”.
La Suprema Corte ha indicato dei criteri rigidi, per l’interruzione dei trattamenti sanitari che tengono in vita, ai quali il giudice del rinvio dovrà adeguarsi.
Fatta salva l’applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell’interesse del paziente, il giudice può autorizzare la disattivazione di un presidio sanitario vitale, “quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno”.
Altra condizione indefettibile, la necessità che la richiesta di far morire il malato “sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona”.
Ove una delle due condizioni manchi, “il giudice deve negare l’autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa”.