Con la recente decisione in commento, il Tribunale di Roma prende atto che
In quella fattispecie
Il Tribunale, prima di esprimere un motivato giudizio critico su alcuni punti, elenca i principi affermati dalla Cassazione, partendo dalla distinzione fra causalità materiale e giuridica e dalle peculiarità della responsabilità per omissione rispetto alla responsabilità per condotta omissiva:
a) «finché non erano conosciuti dalla scienza medica mondiale i virus dell'HIV, HBC ed HCV e quindi i test d'identificazione degli stessi, proprio perché l'evento infettivo da detti virus era già astrattamente inverosimile, poiché addirittura anche, astrattamente sconosciuto, manca il nesso causale tra la condotta omissiva del Ministero e l'evento lesivo, in quanto all'interno delle serie causali non può darsi rilievo che a quelle soltanto che, al momento in cui si produce l'omissione causante e non successivamente, non appaiono del tutto inverosimili, tenuto conto della norma comportamentale o giuridica, che imponeva l'attività omessa»;
b) «per quanto sembri trattarsi di colpa specifica, in quanto trattasi di violazione di regole espresse che assegnavano tali obblighi al Ministero, tuttavia, poiché è evidente che il legislatore non potesse conoscere prima ancora della Comunità scientifica mondiale l'esistenza dei virus in questione, allorché si va a determinare il contenuto concreto della condotta genericamente dovuta, ma omessa, ciò va necessariamente correlato alla prevedibilità dell'evento che il Ministero avrebbe dovuto evitare» di talché «in questo caso, stante l'atipicità della condotta dovuta, la responsabilità da omissione sorge, secondo l'ordinario criterio della colpa, ogni volta che il danno poteva essere prevenuto ed evitato, con giudizio ex ante fondato sulla prevedibilità dello stesso»;
c) in quanto «le tre infezioni costituiscono tre differenti eventi lesivi, la responsabilità del Ministero va accertata, sia relativamente al nesso causale che alla colpevolezza, con riferimento ad ognuno dei tre virus, e quindi alla prevedibilità degli stessi, con la conseguenza che, essendo stati conosciuti i virus HIV e HCV solo successivamente - rispettivamente negli anni 1985 e 1988 - da dette date successive è configurabile la responsabilità del Ministero per gli stessi»;
d) «si giungerebbe ad un'ipotesi di responsabilità sconosciuta all'ordinamento ed ancora più rigorosa di quella cd. da rischio da sviluppo in tema di responsabilità del produttore» perché verrebbe posta «a carico del Ministero, che pure è chiamato in giudizio esclusivamente a norma dell'art. 2043 c.c., al di fuori da ogni ipotesi di presunzione di colpa o di responsabilità, la responsabilità per un evento lesivo sconosciuto a tutti e, quindi come tale non evitabile»;
e) «occorre, ai fini del nesso causale, e della colpa, che questi siano individuati in relazione ad uno specifico evento lesivo e non in relazione ad una generica pericolosità delle trasfusioni, come possibile veicolo di infezioni».
Dopo aver elencato i principi affermati dalla Cassazione, il Tribunale (pur enunciando la condivisione dell'impostazione di fondo della sentenza n. 11609/05 in ordine ai criteri di accertamento del nesso causale e della colpevolezza del soggetto agente nell'illecito per omissione) dichiara di non approvare quanto si evince dalla lettura della motivazione della sentenza di Cassazione secondo cui vi sarebbe una “oggettiva diversità dell'evento lesivo che colpisce i soggetti sottoposti a trasfusioni di sangue o a somministrazione di emoderivati a seconda del tipo di patologia contratta (HCV, HBV, HIV)”.
Per
Per il Tribunale non si può parlare di diversità di eventi (“tanto nella fattispecie esaminata dalla Cassazione quanto in quella oggetto del presente giudizio”), perché “l'evento dannoso, almeno in senso giuridico (l'unico rilevante in giudizio) è sempre lo stesso e consiste nella lesione dell'integrità psico-fisica del soggetto sottoposto (come nel caso in esame) alla pratica trasfusionale”.
“E’ quindi, questo l'evento lesivo cui occorre fare esclusivo riferimento nella valutazione degli elementi costitutivi della responsabilità aquiliana e, in particolare del nesso di causalità materiale con la condotta omissiva del Ministero e dell'elemento soggettivo della colpa”.
“Diversità sussiste quanto all'agente patogeno biologicamente responsabile della lesione e cioè alla identificazione del tipo concreto di lesione dell'integrità psico-fisica ma ciò non incide direttamente sulla responsabilità giuridica del soggetto che, con la sua omissione colposa, contribuì nella (e, quindi, giuridicamente determinò, ex art. 40 comma 2, c.p.) la diffusione di quell'agente patogeno”.
“Il progredire delle conoscenze scientifiche, infatti, ha permesso solo di potere individuare con esattezza i virus che causano l'infezione e di identificarli con specifici test, senza per questo costituire un elemento di novità nella serie causale, già ben nota fin dai primi anni '70, «trasfusione e/o somministrazione di emoderivati-contagio infettivo-lesione dell'integrità psicofisica»”.
Quindi, il rapporto causale con la trasfusione (e, di conseguenza, con la condotta omissiva) non sarebbe riconoscibile, “non essendo ravvisabili nella specifica conseguenza dannosa quei caratteri di normalità, ordinarietà ed adeguatezza in cui deve consistere il nesso di causalità materiale secondo la giurisprudenza (cd. teoria della conditio sine qua non, temperata dalla teoria, della causalità adeguata o della regolarità causale)”.
Il Tribunale con la nuova decisione fa osservare che, per poter condividere tale conclusione, “si dovrebbe ritenere che l'autore di una condotta lesiva dell'integrità fisica di altro soggetto risponderebbe solo delle malattie note alla (e già studiate dalla) scienza a quel tempo mentre non sarebbe responsabile (per mancanza del nesso causale) delle malattie provocate da quella medesima condotta quando non ancora studiate dalla scienza e che, per questa, sarebbero straordinarie o inverosimili al momento della condotta illecita”.
Il Tribunale, quindi, torna a ribadire che il Ministero avrebbe dovuto vigilare per garantire la sicurezza del sangue utilizzato nelle pratiche trasfusionali. “essendo poste a tutela della salute umana specifiche regole prescrittive di determinate cautele (richiamate nel punto 2.3) - nella fase di raccolta, conservazione e distribuzione del sangue umano, e riguardanti, tra l'altro, i controlli sull'idoneità dei donatori; la ricerca dell'antigene del virus dell'epatite B sul sangue utilizzato per le trasfusioni; i rigidi controlli di laboratorio previsti per l'autorizzazione all'importazione di sangue dall'estero, ecc”.
Poiché l'evento dannoso del caso affrontato era proprio la lesione dell'integrità psico-fisica, il nesso di causalità materiale è stato ritenuto accertato, “dovendosi presumere che quelle cautele erano idonee ad impedire il verificarsi di quella lesione (cfr., in generale, Cass. 8/1/1968, n. 40)”.
Ad avvalorare la presunzione di efficacia “la dimostrazione che comune è la eziopatologia dell'epatite B e dell'epatite da HCV, nel senso che identiche sono le modalità di trasmissione dei virus ed identiche le precauzioni necessarie, e che l'adozione delle cautele previste per l'una avrebbe anche impedito la (o considerevolmente attenuato il rischio della) insorgenza della seconda”..
Peraltro, “la già dimostrata, tendenziale coincidenza epidemiologica tra le infezioni in questione (epatite da HBV, HCV ed infezione da HIV), oltre che essere un dato acquisito nella letteratura scientifica (…), è riconosciuto anche dal Ministero della sanità”.
Il riferimento è alla circolare n. 64/1983, dove a proposito dell'HIV (e a maggior ragione il discorso vale per l'HCV) si legge: “i dati epidemiologici e clinici orientano verso una eziologia virale a trasmissione sessuale e parenterale simile a quella dell'epatite B”.
Se per
Fa pure osservare il Tribunale che, secondo Cass. n. 6241/1987, il rischio di contagio del virus dell'epatite B non è espressamente previsto dalla normativa riguardante gli emoderivati ma tuttavia è compreso nell'ampia prevenzione stabilita dalla medesima.
Invece, nella logica della sentenza n. 11609/05, non sarebbe possibile affermare la responsabilità di alcun soggetto per le infezioni da epatite B contratte in epoca precedente all'anno 1978 (anno in cui, secondo la stessa sentenza, sarebbe stato individuato il virus dell'epatite B), nonostante la violazione delle norme prescrittile di cautele specifiche già da molto tempo vigenti a garanzia della sicurezza del sangue.
Viene a questo punto citata altra giurisprudenza (Cass. n. 6241/1987 cit.; Trib. Milano 19/11/1987, Foro it., 1988, I, 144) che ha ammesso la responsabilità del produttore di farmaci che avevano causato la diffusione dell'epatite B in epoca molto precedente all'anno 1978 “sul presupposto che le norme cautelative violate erano finalizzate non già a contrastare il rischio della diffusione di questo o quel virus particolare ma a tutelare l'integrità psico-fisica della persona”.
Ed anche se “la giurisprudenza richiamata ciò ha statuito facendo applicazione dell'art. 2050 c.c. in tema di responsabilità per esercizio di attività pericolosa”, nessuna differenza sussiste rispetto al modello di responsabilità aquiliana disciplinato dall'art. 2043 c.c., “quanto alla valutazione (ed alla struttura) del nesso causale (che la sentenza n. 11609/05 ha in radice negato nei casi di contagio di virus non ancora individuati dalla scienza al momento della condotta)”.
Secondo l’analisi del Tribunale, il riferimento operato nella sentenza n. 11609/05 all'anno in cui il virus HCV fu identificato (1988) come data a partire dalla quale soltanto si potrebbe affermare la responsabilità civile del Ministero, anche per il contagio dell'epatite da HCV causato dalla somministrazione di emoderivati, risulta incomprensibile soprattutto perché i metodi di purificazione del sangue (cd. termotrattamento, metodo antivirucidico, ecc.) che lo rendevano sicuro rispetto al rischio di trasmissione di agenti infettivi (già sperimentati a partire dal 1983 ed imposti dal Ministero nel 1985 con circ. del 17/7/1985 n. 28) erano idonei ad inattivare tutti i virus in questione (HIV, HCV, HBV).
Per il Tribunale “è infatti, irrilevante che nel 1985 il virus HCV non fosse stato identificato, dovendo il Ministero a partire già da quell'anno vigilare sull'effettiva attuazione del termo trattamento e dei metodi di inattivazione che erano conosciuti seppur per contrastare i virus allora noti dell'epatite B e dell'HIV” .
Ed ancora, “la sola e costante causa del contagio rimane l'uso del sangue proveniente da donatori infetti e l'omissione colposa del soggetto che aveva l'obbligo di impedirlo. Poiché le condizioni ambientali o i fattori naturali, non possono dar luogo, senza rapporto umano, all'evento di danno, l'autore del comportamento (in questo caso omissivo) è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità (cfr. Cass. n. 2335/2001)”.
Nell’ottica della decisione in commento il progredire della scienza medica dovrebbe considerarsi “un fattore naturale estraneo alla sequenza causale «trasfusione - contagio infettivo - lesione dell'integrità psico-fisica»” ma pur ipotizzando che la individuazione di nuovi virus costituisca una azione od omissione umana ovvero una serie causale concorrente rispetto a quella originaria, vien fatto osservare che “nel caso delle infezioni post-trasfusionali da HCV, la scoperta del virus responsabile dell'HCV non costituisce affatto una causa autonoma dell'evento lesivo idonea ad interrompere il nesso causale con la condotta originaria (anche omissiva) causativa dell'infezione da HBV”.
In conclusione, stando alla decisione del Tribunale “il nesso di causalità sussiste ed in relazione non già alla generica pericolosità delle trasfusioni ma ad un preciso evento dannoso costituito dalla lesione dell'integrità psico-fisica”.
Fondare la responsabilità aquiliana colposa (come ha fatto
Invece, a giudizio del Tribunale, al Ministero deve essere imputata la condotta omissiva per aver violato”sia norme cautelari scritte sia regole non scritte di comune prudenza a tutela della salute umana”.
“Quanto alle prime (in relazione alle quali è configurabile una colpa specifica), è noto che prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso sono assorbite nella stessa norma cautelare che è oggetto della trasgressione e per questo, non hanno bisogno di dimostrazione (che comunque è stata ampiamente offerta nel caso specifico), in quanto l'inosservanza della regola scritta comporta, di per sé, imprudenza e negligenza con conseguente responsabilità colposa per gli eventi dannosi che esse mirano a prevenire (si tratta, nel caso in esame, della lesione dell'integrità psico-fisica determinata dal contagio di malattie infettive veicolate dal sangue).
“Quanto alle seconde (la cui esigibilità non è esclusa dall'esistenza di regole specifiche), sotto il profilo della imprudenza, imperizia e negligenza, la colpa (generica) è da ravvisare «ogni qual volta manchi la rappresentazione da parte dell'agente, secondo il criterio della media diligenza ed attenzione, della possibilità dell'evento dannoso, poi in concreto verificatosi» (v. Cass. n. 1656/1981)”.
Nell’orientamento seguito dalla Suprema Corte, il Tribunale ravvisa una ulteriore incongruenza: “il richiedere (ai fini della stessa configurabilità di una responsabilità dell'agente) la esatta conoscenza (già al momento della condotta) del tipo particolare di virus che nel futuro potrà essere veicolato dal sangue, produce l'effetto di applicare in campo extracontrattuale la limitazione (valida solo in campo contrattuale) della responsabilità ai soli danni prevedibili”.
In altri termini, poiché l'entità della lesione all'integrità psico-fisica (ed il quantum debeatur) dipendono in concreto dal tipo di infezione virale, “il limitare la responsabilità dell'agente alle sole patologie provocate da determinati virus (conosciuti al momento della condotta) e non da altri, significa violare il principio che in materia extracontrattuale va risarcito, sotto il profilo del quantum, anche il danno imprevedibile, non essendo l'art. 1225 richiamato dall'art. 2056 c.c. (v., tra le tante, Cass. n. 2488/1979 e 6725/2005”.
Invece, il principio secondo cui “il concreto ammontare del risarcimento non può eccedere l'entità prevedibile nel momento in cui è sorta l'obbligazione inadempiuta si riferisce solo alla responsabilità contrattuale come ribadito da Cass. n. 3102/2000”.
Infine, il Tribunale fa osservare che “l'orientamento qui non condiviso contrasta con quello seguito in Francia dal Consiglio di Stato (v. decisione del 9/4/1993, in Recueil Dalloz, 1993, J. 312) che, nell'individuare il sorgere della responsabilità civile dello Stato per i danni da contagio dell'HIV a seguito di trasfusione o di uso di emoderivati, ha fatto riferimento non già alla data di identificazione del virus dell'HIV in sede scientifica (cioè al 1985) ma a quella, comunque precedente, in cui l'Amministrazione sanitaria, pur informata della pericolosità del sangue come veicolo di infezioni virali, non aveva adottato tempestivi provvedimenti a tutela della salute pubblica, avendo soltanto con circolare del 20/10/1985 vietato la distribuzione degli emoderivati infetti”.
C’è pure da considerare che “il Ministero della salute italiano ha ritardato sino al 1988 la decisione di ritirare dal commercio i farmaci non sottoposti al termotrattamento, a seguito del parere del Consiglio superiore di sanità in data 17/3/1988 (v., sul punto, il p. 10 b di Trib. Roma 14/6/2001 cit.)”.
Il Tribunale conclude che nel 1981 (nel caso di specie si trattava di un paziente affetto da leuconcefalite acuta virale, “ricoverato nel dicembre del 1981 presso la clinica pediatrica dell'Università degli Studi di (X) dove fu sottoposto a trasfusioni di plasma a sangue intero in seguito alle quali sviluppò positività ai test anti-HCV con diagnosi nel gennaio 1996 di epatite cronica da HCV”) quando il paziente fu sottoposto alle trasfusioni “erano disponibili idonei strumenti diagnostici e di prevenzione in grado di impedire l'evento, ex ante oggettivamente prevedibile, della trasmissione per mezzo delle trasfusioni e della somministrazione di emoderivati di malattie virali epatiche inclusa l'epatite NANB”.
“L'aver tardivamente imposto detti controlli concreta quindi condotta colposa causativa del danno ascrivibile all'amministrazione ex art. 2043 c.c..
La convenuta amministrazione va quindi condannata al risarcimento del danno subito dall'attore”.
P.S.
Per completezza di informazione mi sembra doveroso aggiungere che altra giurisprudenza di merito (anche successiva alla data di deposito della sentenza del Tribunale di Roma qui commentata) sembra invece essersi “assoggettata” all’orientamento di legittimità.
Per il Tribunale di Genova, “in ipotesi di danno alla salute, derivante dall'aver contratto il virus dell'epatite C a seguito di trasfusioni di sangue infetto, (…) appare evidente che la non conoscenza oggettiva dei virus in questione e l'impossibilità di accertarne l'esistenza, se non da una certa data, rilevano anche sotto il profilo della non ricorrenza della colpevolezza. In definitiva, costituendo l'infezione HCV l'evento lesivo per cui è causa e stante la struttura di cui all'art. 2043 c.c., la responsabilità del Ministero va accertata, - sia relativamente al nesso causale che alla colpevolezza - con riferimento alla prevedibilità dell'evento medesimo, con la conseguenza che essendo stato conosciuto il virus HCV solo nell'anno 1988, solo successivamente a detta epoca è configurabile la responsabilità per la verificazione dell'evento (per tale motivo è stato escluso il risarcimento del danno cagionato da infezione conseguente a trasfusioni effettuate nel 1959)”. (Trib. Genova Sez. II, 11-01-2007)
Secondo il Tribunale di Bari: “Poiché, ai fini della sussistenza del reato colposo omissivo, occorre verificare l'astratta riconducibilità dell'evento cagionato al tipo di evento che la specifica attività di controllo e vigilanza omessa era volta a prevenire, non è ravvisabile una responsabilità a titolo di colpa a carico del Ministero della salute per le infezioni (nel caso di specie epatite C), conseguenti ad emotrasfusioni di sangue infetto, contratte in una epoca in cui non soltanto il progresso scientifico non era giunto ad approntare test idonei per la identificazione del virus, ma addirittura quest'ultimo non era stato ancora identificato; non si vede, infatti, quali comportamenti finalizzati al controllo e alla vigilanza sul sangue, l'ente avrebbe potuto adottare al fine di identificare un virus sconosciuto alla scienza”. (Trib. Bari Sez. III, 15-03-2007) .