La privata dimora (od il privato domicilio), dunque, viene incoronata quale elemento di centralità, in forza del richiamo alle due ipotesi contenute nell’art. 614 comma 1 e 2 c.p.
Si tratta di un orientamento sintomatico ed indicativo dell’intenzione parlamentare di creare una situazione qualificata di vera e propria autotutela, normativamente predeterminata, assistita da presunzione assoluta di non punibilità.
Stando, quindi, ad un interpretazione strictu sensu della norma novellata, l’azione sarebbe stata, quindi, scriminata – senza che all'autore incombesse l'onere di fornire prova alcuna – nel caso che si avesse avuto la ventura di trovarsi a difendere da un’aggressione illecita in un luogo privato, invece, che nel messo dello strada o di fronte a casa propria!
A fronte, dunque, di una percepibile irragionevolezza delle conclusioni cui si perverrebbe stando – come detto - ad una fedele valutazione lessicale della norma, la Corte, invece, nella sentenza che si commenta, privilegia la necessità di dimostrare la sussistenza di un attacco (o pericolo di attacco) alla persona, nel luogo indicato.
I Supremi Giudici, dunque, evidenziano l’impossibilità di ritenere ed assumere la soglia di casa come ultima frontiera assoluta del diritto del singolo a farsi giustizia, insieme a quella tutela dei “beni propri o altrui”, che fortemente pubblicizzata come importante novità di risposta ai bisogni di sicurezza dei cittadini, altro non è che la mistificante riproposizione di criteri valutativi adottati unanimemente sia in dottrina, che in giurisprudenza.
La autotutela del domicilio, separata dalla percezione e dalla presenza di un effettivo attentato di natura più globale al diritto all’autodeterminazione del singolo, cioè separata dall’offesa a diritti indubbiamente e costituzionalmente più importanti della mera proprietà (la salute, l’integrità fisica e psichica della persona, solo per citarne alcuni) non è, quindi, parametro sufficiente a configurare processualmente la legittima difesa di cui all’art. 52 c.p..
D’altronde, come ho avuto più volte occasione di sostenere, nel nostro ordinamento giuridico la tutela dei diritti patrimoniali non è mai apparsa carente, né ha subito limitazioni, se non in relazione a quella doverosa gerarchia che deve intercorrere fra i diritti soggettivi.
Sostenere, quindi, che prima della L. 59/06 i diritti patrimoniali dei singoli (perché all’interno di tale categoria rientra la definizione usata nel testo normativo) non fossero tutelati in situazioni di aggressione ingiusta è affermazione incommentabile e impone seri dubbi sulla conoscenza legislativa di chi la formuli.
Il recupero giurisprudenziale del paradigma delibativo, consistente nel presupporre una minaccia od una offesa (concreta o potenziale) cui l’aggredito reagisce, pur nel segreto della propria abitazione o del proprio esercizio commerciale, non esclude la persistenza di dubbi di costituzionalità che investono tuttora la norma.
La disposizione di cui si dibatte configura, infatti, una forma di tutela del domicilio (situazione fattuale e giuridica che si reputa diversa dalla difesa in senso stretto) che appare qualificata in punto di diritto avverso indebite intrusioni, le quali risultino strumentali rispetto a reati a contenuto patrimoniale e che possano, in forza delle modalità dell’aggressione, porre in pericolo l’incolumità dei residenti.
Non è, quindi, affatto comprensibile la ragione di maggiore tutela giuridica accordata in favore del soggetto che si trovi all’interno di uno dei luoghi descritti dall’art. 614 c.p., a scapito di chi venga a subire la medesima situazione di minaccia e, indi, di persistenza dell’aggressione ingiusta, per strada od in altro diverso luogo.
Quale differenza sia ravvisabile fra una persona anziana che debba difendersi all’uscita di ufficio postale, dove ha ritirato la propria magra pensione, da un tentativo di rapina e si difenda accanitamente (se vi riesce) ferendo od uccidendo l’aggressore ed una persona che esercita la stessa azione nel giardino di casa od all’interno della stessa?
Nessuna, in quanto da sempre si ammette (e fortunatamente nonostante questa legge si continua ad ammettere) la difesa legittima dall’aggressore indipendentemente dal luogo ove questa venga effettuata.
Sul piano processuale, però, la denunziata discrasia che si verifica (e l’irrazionale ed immotivata differenza tra soggetti che si trovino in situazioni analoghe) è indiscutibile e pare ledere il disposto dell’art. 3 della Costituzione.
Il caso di specie non pare porre altri problemi interpretativi che appaiono diversi da quello in esame e possano introdurre ulteriori argomenti specificamente connessi con la tematica in questione, sicchè – ad esempio - si deve rinviare ad altre eventuali diverse situazioni l’approfondimento di altri profili fra i quali spicca quello di quella sorta di inversione dell’onere della prova che si rinviene nella struttura della norma, posto che non deve essere l’inquisito a dimostrare gli elementi negativi del fatto (id est: la presenza della scriminante), ma la pubblica accusa a provare la sua insussistenza.
Problema questo che – si ribadisce – appare di una delicatezza notevole e tale da dovere venire certamente affrontato quanto prima.
Resta, comunque, inspiegabile (e risulta in concreto ingiusto) il privilegio accordato normativamente, in una evidente scala di valori [la gerarchia prima richiamata], più alla tutela del domicilio che alla difesa della persona.
Quest’ultima, infatti, assume valore giuridicamente qualificato (con tutti i benefit probatori cui si è fatto espresso riferimento) solo in funzione del luogo, quasi che la persona (od i diritti patrimoniali od extrapatrimoniali che costei difende dall’illecita intrusione) se considerati in maniera avulsa e scollegata da un luogo di dimora perdano spessore e dignità.
Tornando alla sentenza che si commenta, è evidente come lo stesso ingresso fraudolento o clandestino nella dimora dell’aggredito (o supposto tale), in carenza sempre della vis di aggressione o di esposizione della controparte ad un pericolo della stessa specie [cui si è fatto cenno in precedenza] non acquisisca pregnanza ai fini di invocare l’esecutività della circostanza esimente in parola.
Non è, infatti, casuale che la Suprema Corte neghi dignità di esimente in presenza di “un'indiscriminata reazione nei confronti del soggetto che si introduca fraudolentemente nella propria dimora”.
Con tale locuzione, quindi, il Collegio è andato indubbiamente al di là delle espressioni usate, lasciando intendere la impossibilità di derogare al principio di proporzionalità fra accusa e difesa (che irresponsabilmente il legislatore ha tentato di abrogare) e, al contempo, ha certamente confinato la portata indiretta dell’art. 614 c.p., ritenuto punto di riferimento della riforma del 2006, in un vero e proprio limbo.
Consegue, pertanto, che la Suprema Corte, esclude, quindi, che la L. 59 del 2006 abbia potuto stravolgere la tripartizione consistente
nell’ingiusta quanto concreta offesa di una male operata da un soggetto,
nella immediata reazione della persona effettivamente minacciato od aggredito
nella proporzionalità fra i due comportamenti, il secondo dei quali deve essere l’unico mezzo di reazione all’ingiustizia patita,
in quanto il domicilio deve essere ritenuto elemento di pura complementarietà a detti parametri.
Nulla di particolarmente nuovo, quindi, parrebbe in diritto?