SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Sentenza 30 maggio 2007, n. 12687
(Presidente Luccioli – Relatore Felicetti)
Svolgimento del processo
1. Q. C., con ricorso 20 ottobre 2000 al tribunale di Roma, chiedeva la modifica delle condizioni di divorzio stabilite con la sentenza n. 2795/91, revocando l'assegno divorzile posto a suo carico ed attribuito alla ex moglie B. C. ‑ pari a lire 1.281.000, rivalutabili annualmente secondo gl’indici Istat ‑ o quanto meno ridurlo, eliminando o riducendo l'ipoteca concessa a garanzia di detto assegno.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo si denuncia la violazione degli artt. 5 e 9 della legge n. 898 del 1970. Si deduce che
Il motivo è fondato.
2. Va premesso che l'orientamento di questa Corte, interpretativo dell'art. 9 della legge n. 898 del 1970, nel testo modificato dall'art. 13 della legge n. 74 del 1987, si è formato in correlazione con quello dell'art. 5 della stessa legge n. 898 del 1970, come modificato dall'art. 10 della legge n. 74 del 1987.
Secondo tale articolo, l'accertamento del diritto all'assegno di divorzio va effettuato verificando innanzitutto «l'inadeguatezza dei mezzi (o l'impossibilità di procurarceli per ragioni oggettive), raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio». L'assegno che sarebbe necessario per assicurare detto tenore costituisce l'assegno massimo liquidabile. La liquidazione in concreto dell'assegno, peraltro, ove sia ritenuto dovuto non essendo il coniuge richiedente in grado di mantenere con i propri soli mezzi detto tenore di vita, va compiuto, tenendo conto, sempre a norma dell'art. 5, delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, valutandoci tutti i su detti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio. Tali elementi funzioneranno normalmente come criteri di riduzione dell'assegno, come sopra stabilito, e potranno anche portare ad escluderlo. In particolare, dovrà tenersi conto dei comportamenti che hanno determinato la fine della comunione spirituale e materiale della famiglia, cosicché l'assegno per il coniuge che ne sia responsabile potrà essere ridotto, nonché della durata del matrimonio la quale, quanto più sia protratta, tanto più legittimerà la conservazione all'avente diritto del livello dì vita acquisito durante il matrimonio e quanto meno si sia protratta, tanto più ne legittimerà la riduzione (Cass. SS.UU. 29 novembre 1990, n. 11490, alla quale si è conformata, consolidandosi, la successiva giurisprudenza di questa Corte).
In correlazione a ciò si è tratta la conseguenza che la revisione dell'assegno in senso più favorevole all'avente diritto, prevista dall'art. 9 sopra citato per il sopravvenire "di giustificati motivi", è uno strumento volto ad assicurare all'ex coniuge, con riferimento all'assegno già liquidato, la permanente disponibilità di quanto necessario, nel tempo, per fruire di un tenore di vita adeguato alla pregressa posizione economico‑sociale, tenendo conto dei mutamenti in negativo e in positivo della situazione economica di ciascun coniuge.
La rilevanza dei fatti sopravvenuti va considerata, quindi, con riguardo alla su detta funzione dell'assegno divorzile e comporta una rinnovata valutazione comparativa della rispettiva situazione economica delle parti (Casa. 13 febbraio 2006, n. 3018). Con la specificazione che il tenore di vita al quale deve farsi riferimento, non è solo quello riconducibile ai mezzi economici che i coniugi avevano durante il matrimonio, ma anche alla sopravvenienza di miglioramenti di reddito «che si configurino come ragionevole sviluppo di situazioni e aspettative presenti al momento del divorzio» (Cass. 4 aprile 1997, n. 5720) e siano quindi rapportabili «all’attività all’epoca svolta, e/o al tipo di qualificazione professionale» dell'onerato (Cass. 28 gennaio 2000, n. 958; 8 gennaio 1996, n. 2273), ovvero, comunque, alla prevedibile evoluzione economica (Cass. 16 novembre 1993, n. 11326) delle attività svolte in costanza di matrimonio.
Ciò non implica che in sede di revisione dell'assegno di divorzio debba essere compiuta una nuova determinazione della misura dell’assegno sulla base di tutti i criteri indicati dall'art. 5 della l. n. 899 del
Non si ravvisano ragioni per discostarsi da tale indirizzo interpretativo, che appare in linea con l'esigenza di tutela delle aspettative del coniuge economicamente più debole, sorte durante il matrimonio e pregiudicate dagli effetti della sua cessazione, alle quali la legge n. 74 del
In tale ottica interpretativa, come questa Corte ha già affermato (Cass. 28 gennaio 2000, n. 958), il legislatore, subordinando la revisione dell'assegno alla sopravvenienza di giustificati motivi nel senso sopra detto, non ha inteso stabilire un automatismo fra i miglioramenti della situazione economica del coniuge obbligato, successivi al divorzio, e l'aumento dell'assegno. Ciò, in primo luogo perché, ove la richiesta di modifica venga a fondarsi unicamente su tali miglioramenti, è necessario che si valuti se ed in quale misura il coniuge che richiede la rivalutazione dell'assegno possa ritenersi titolare di un affidamento a un tenore di vita correlato a detti miglioramenti, in relazione alla loro natura. In particolare, occorre accertare se detti miglioramenti siano rapportabili all'attività svolta, in costanza di matrimonio, o al tipo di qualificazione professionale dell'onerato.
Tra tali incrementi questa Corte ha già affermato (Cass. 18 marzo 1996, cit.) che non possono ricomprendersi i miglioramenti dovuti ad eredità ricevute dall'onerato dopo il divorzio, e questo collegio ritiene di dovere confermare tale indirizzo, risultando i relativi incrementi reddituali privi di collegamento con la situazione economica dei coniugi durante il matrimonio e con il reciproco contributo datosi nel corso di esso. Le aspettative ereditarie sono infatti, sino al momento dell'apertura della successione, prive, di per sé, di valenza sul tenore di vita matrimoniale e giuridicamente inidonee a fondare affidamenti economici. Con la conseguenza che, mentre le successioni ereditarie che si verifichino in costanza di convivenza coniugale, incidendo sul tenore di vita matrimoniale, concorrono a determinare la quantificazione dell'assegno dovuto dal coniuge onerato, quelle che si verifichino dopo non sono idonee ad essere valutate, sotto detto profilo, secondo i principi sopra indicati.
3. Nel caso di specie l'odierna resistente aveva richiesto la modifica dell'assegno di divorzio sia sotto il profilo del peggioramento della propria situazione economica, sia sotto il profilo del miglioramento di quella dell'ex marito, per avere egli ereditato alcuni beni immobili dalla madre.
Con riferimento a tali statuizioni
Ne deriva l'accoglimento del primo motivo.
4. Con il secondo motivo si denuncia l'assoluta carenza di motivazione del provvedimento impugnato in relazione alla conferma dell'importo dell'ipoteca a garanzia dell'assegno divorzile stabilito dal tribunale.
Anche tale motivo è fondato.
5. Con il terzo motivo si denuncia la violazione dell'art. 112 cod. civ., per avere
Deve ritenersi che
Vanno pertanto accolti il primo e il secondo motivo, con assorbimento del terzo, e la sentenza impugnata va cassata con rinvio, anche per le spese, alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.
P.Q.M.
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Cassazione civile, revocatoria ed allegazione
Cassazione – Sezione seconda civile – sentenza 23 aprile – 1 giugno 2007, n. 12849
Azione revocatoria – allegazione del decreto ingiuntivo – sufficienza – legittimità [art. 2901 c.c.]
Nel giudizio ex art. 2901 cc è suffíciente al creditore procedente l'allegazione d'un decreto ingiuntivo ottenuto nei confronti del preteso debitore per dimostrare la titolarità d'un credito meritevole di tutela, in quanto già esaminato e ritenuto provato in sede monitoria, e la pendenza del giudizio d'opposizione ex art. 645 c.p.c. avverso il detto decreto né osta alla deC.toria d'inefficacia dell'atto pregiudizievole alle ragioni del creditore né, come pure evidenziato nella stessa sentenza, comporta la sospensione del giudizio ex art. 295 c.p.c..
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II CIVILE
Sentenza 1 giugno 2007, n. 12849
(Presidente Elefante – Relatore Settimj)
Svolgimento del processo
Contumace F. B., A. B. e C. D., nel costituirsi, contestavano la domanda evidenziando che il decreto ingiuntivo a base dell'avversa pretesa era oggetto d'opposizione pendente e che il credito della Banca era garantito da un'ipoteca volontaria accesa su altri loro immobili recentemente escussa con totale soddisfazione della creditrice.
Nel costituirsi a sua volta,
All'esito dell’istruttoria, l'adito tribunale, con sentenza 17.11.00, accoglieva la domanda, sulla considerazione che, ai fini dell'accoglimento dell'azione revocatoria, era sufficiente una ragione di credito anche eventuale e non accertata giudizialmente; che la garanzia reale costituita con l'ipoteca non aveva sostituito la fideiussione prestata dai B. per i debiti della Srl "X.", ma garantiva una nuova ed autonoma linea di credito sotto forma di conto corrente aperto il giorno successivo alla sua costituzione; che risultavano accertati sia l'eventus damni, in quanto alla compravendita in discussione s'era accompagnata negli stessi giorni l'alienazione anche degli altri beni residui non ipotecati, sia il consilium fraudis, in quanto, da un lato, detta compravendita era posteriore alla genesi del credito, da riferirsi non alla data del decreto ingiuntivo ma a quella dei saldi passivi dei conti correnti della S.r.l. "X." anteriori alla stipulazione, e, dall'atro, la consapevolezza negli stipulanti dell'attitudine della vendita a diminuire la garanzia patrimoniale degli alienanti con pregiudizio dei creditori era dimostrata, per i congiunti B., dalla conoscenza della situazione debitoria della garantita S.r.l. "X," e dalla contestuale vendita degli altri residui immobili liberi da ipoteca, per
Avverso tale sentenza A. B. e C. D. nonché
Ne decideva la corte d'appello di Brescia respingendoli entrambi, con sentenza 18.3.03, sulla considerazione della correttezza di statuizione e di motivazione dell'impugnata sentenza le cui argomentazioni, recependole, approfondiva.
Anche tale decisione è stata impugnata dalla Soc. Y., che ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi.
Resiste
Motivi della decisione
Con il primo motivo, la ricorrente ‑ denunziando violazione dell'art. 2901 cc con riferimento all'art. 360 n. 3 c.p.c. ‑ sostiene la necessità da parte dell'agente in revocatoria di proporre domanda diretta all'accertamento del proprio credito e/o della sua qualità di creditore, onde,
Il motivo è inammissibile, per novità della questione e difetto di specificità dell’argomentazione, ancor prima che infondato.
La prospettatavi questione della necessità d'una apposita domanda d'accertamento del credito da proporsi congiuntamente alla domanda ex art. 2901 cc, non ha formato, infatti, oggetto di trattazione nel giudizio d'appello, secondo quanto risulta dall'esame delle componenti essenziali dell'impugnata sentenza ‑ conclusioni delle parti riportate nell'epigrafe, motivi dell'impugnazione riportati all'inizio della motivazione, esposizione del fatto, motivazione ‑ contro la quale non è stata formulata alcuna specifica e rituale censura ex art. 112 c.p.c. per omesso esame della questione stessa.
Come ripetutamente evidenziato da questa Corte, infatti, l'omessa pronuncia, quale vizio della sentenza, dev'essere, anzi tutto, fatta valere dal ricorrente per cassazione esclusivamente attraverso la deduzione del relativo error in procedendo e della violazione dell'art. 112 c.p.c. e non già con la denunzia della violazione di norme di diritto sostanziale ovvero del vizio di motivazione ex art. 360 n. 5 c.p.c. (Cass. 24.6.02 n. 9159, 11.1.02 n. 317, 27.9.00 n. 12790, 28.8.00 n. 11260, 10.4.00 n. 4496, 6.11.99 n. 12366); perché, poi, possa utilmente dedursi il detto vizio, è necessario, da un lato, che al giudice del merito fossero state rivolte una domanda od un'eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si rendesse necessaria ed ineludibile, e, dall' altro, che tali domanda od eccezione siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente e/o per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per cassazione, con l'indicazione specifica, altresì, dell'atto difensivo del giudizio di secondo grado nei quali l'una o l'altra erano state proposte o riproposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primis, la ritualità e la tempestività edí in secondo luogo, la decisività delle questioni prospettatevi; ove, infatti, si deduca la violazione, nel giudizio di merito, dell'art. 112 c.p.c., ciò che configura un'ipotesi di error in procedendo per il quale questa Corte è giudice anche del "fatto processuale", detto vizio, non essendo rilevabile d'ufficio, comporta pur sempre che il potere‑dovere del giudice di legittimità d'esaminare direttamente gli atti processuali sia condizionato all'adempimento da parte del ricorrente, per il principio d'autosufficienza del ricorso per cassazione che non consente, tra l'altro, il rinvio per relationem agli atti della fase di merito, dell'onere d'indicarli compiutamente, non essendo consentita al giudice stesso una loro autonoma ricerca ma solo una loro verifica (Cass. 23.9.02 n. 13833, 11.1.02 n. 317, 10.5.01 n. 6502).
Pertanto, poiché la questione dedotta con il motivo in esame non forma oggetto di censura per omessa pronunzia negli indicati termini, mentre introduce temi di dibattito completamente nuovi, implicando accertamenti in fatto non acquisiti agli atti e decisione su elementi di giudizio pure in fatto che non hanno formato oggetto di contraddittorio nella fase di merito, stanti la natura ed i limiti del giudizio di legittimità, che ha per oggetto solo la revisione della sentenza impugnata in rapporto alla regolarità. formale del processo ed alle questioni di diritto nello stesso già proposte, non può essere presa in considerazione.
In proposito questa corte ha, infatti, avuto ripetutamente occasione d'evidenziare come i motivi del ricorso per cassazione debbano investire, a pena d'inammissibilità, statuizioni e questioni che abbiano già formato oggetto di gravame e che siano, dunque, già comprese nel thema decidendum del giudizio di secondo grado quale fissato dalle impugnazioni e dalle richieste delle parti, mentre non è consentita, a parte le questioni rilevabili anche d'ufficio, la prospettazione di questioni che modifichino la precedente impostazione difensiva ponendo a fondamento delle domande od eccezioni titoli diversi da quelli fatti valere nella fase di merito o questioni di diritto fondate su elementi di fatto nuovi o diversi da quelli dedotti in detta fase (e pluribus, Cass. 22.10.02 n. 14905, 16.9.02 n. 13470, 21.6.02 n. 9097, ma già Cass. 9.12.99 n. 13819, 4.10.99 n. 11021, 19.5.99 n. 4852, 15.4.99 n. 3737, 15.5.98 n. 4910).
L'esposta tesi è, comunque, errata.
Va, infatti considerato come, mentre non risulta affatto l'invocato principio giurisprudenziale per cui con la domanda ex art. 2901 cc debba essere anche chiesto l'accertamento giudiziale del credito (e tanto meno tale principio è affermato o desumibile da Cass. 24.2.00 n. 2104 citata in ricorso), le Sezioni Unite di questa Corte, risolvendo con sentenza 18.5.04 n. 9440 il contrasto verificatosi in materia di sospensione ex art. 295 c.p.c., abbiano ritenuto meritevole d'adesione la lettura estensiva della nozione di credito eventuale fino alla ricomprensione, quale fatto costitutivo della pretesa revocatoria, anche del "credito litigioso” in ragione della finalità di rafforzamento della tutela del creditore perseguita dall'art. 2901 cc.
Tale norma, infatti, se consente la tutela del titolare di crediti soggetti a condizione sospensiva e legittima, pertanto, mediante lettura estensiva della norma, l'equiparazione di tale situazione alla fattispecie nella quale la pretesa creditoria è destinata a concretizzarsi in dipendenza dell'evoluzione, secondo determinate previsioni normative, d'una situazione analoga, legittima altresì, in quanto costituisce solo una ulteriore progressione della medesima linea interpretativa, la riconduzione nella figura del credito eventuale anche della ipotesi del "credito litigioso", sia nel caso in cui questo tragga origine da un negozio e sia controverso, sia nel caso in cui tragga origine non da un negozio, ma da un fatto illecito, contrattuale o extracontrattuale, dedotto in giudizio a sostegno di una domanda risarcitoria.
Ne consegue che nel giudizio ex art. 2901 cc è suffíciente al creditore procedente l'allegazione d'un decreto ingiuntivo ottenuto nei confronti del preteso debitore per dimostrare la titolarità d'un credito meritevole di tutela, in quanto già esaminato e ritenuto provato in sede monitoria, e la pendenza del giudizio d'opposizione ex art. 645 c.p.c. avverso il detto decreto né osta alla deC.toria d'inefficacia dell'atto pregiudizievole alle ragioni del creditore né, come pure evidenziato nella stessa sentenza, comporta la sospensione del giudizio ex art. 295 c.p.c..
Con il secondo motivo, la ricorrente ‑ denunziando omessa insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia ‑ si duole che il giudice a quo sia pervenuto al convincimento circa la sussistenza del pregiudizio delle ragioni creditorie fatte valere dall'attore e della conoscenza di tale pregiudizio da parte dell'acquirente sulla base di elementi probatori oggetto di valutazione effettuata “in contrasto con le più elementari norme di ermeneutica negoziale e di logica giuridica e commerciale".
Il motivo non merita accoglimento sotto alcuno dei due prospettati profili concernenti, l'uno, l'interpretazione dei negozi e, l'altro, la valutazione delle risultanze probatorie.
Il convincimento espresso dal giudice a quo risulta, in effetti, raggiunto mediante lo svolgimento d'attività interpretativa in ordine ai vari negozi posti in essere dalle parti in causa nei loro molteplici rapporti.
Ne consegue che la ricorrente avrebbe dovuto prospettare ogni questione al riguardo, anzi tutto, in relazione all'attività ermeneutica posta in essere dal giudice a quo relativamente a ciascuno degli atti presi in considerazione nella motivazione della sentenza con puntuale riferimento ai singoli criteri legali d'ermeneutica contrattuale, e solo successivamente, una volta idoneamente dimostrato l'errore nel quale fosse eventualmente incorso al riguardo il detto giudice, avrebbe potuto procedere ad un'utile prospettazione delle ulteriori questioni d'erronea od inesatta applicazione d'altre norme ed istituti, dacché la disamina di tali questioni presuppone l'intervenuto accertamento dell'errore sull'interpretazione della volontà negoziale delle parti, e non può, pertanto, aver luogo ove manchi siffatto previo accertamento d'un vizio che inficerebbe, sul punto, ab opigine l'impugnata pronunzia, costituendo tale interpretazione il presupposto logico‑giuridico delle conclusioni alle quali il giudice del merito è pervenuto poi sulla base di essa (Cass. 21.7.03 n. 11343, 30.5.03 n. 8809, 28.8.02 n. 12596).
È ben vero che la ricorrente ha inteso in qualche modo censurare la valutazione degli atti de quibus effettuata dal giudice a quo ed ha, all'uopo, svolto argomenti in senso contrario, tuttavia, quand'anche vi si volesse ravvisare una, se pure irrituale, denunzia d'errore interpretativo, questa sarebbe, comunque, inidoneamente formulata ed insuscettibile d'accoglimento.
L'opera dell'interprete, infatti, mirando a determinare una realtà storica ed obiettiva, qual è la volontà delle parti espressa nel contratto o dichiarata nell'atto processuale, è tipico accertamento in fatto istituzionalmente riservato al giudice del merito, censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali d'ermeneutica contrattuale posti dagli artt. 1362 ss. cc, oltre che per vizi di motivazione nell'applicazione di essi; pertanto, onde far valere una violazione sotto entrambi i due cennati profili, il ricorrente per cassazione deve, non solo, come già visto, fare esplicito riferimento alle regole legali ‑ d'interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito sia si discostato dai canoni legali assuntivamente violati o questi abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti.
Di conseguenza, ai fini dell'ammissibilità del motivo di ricorso sotto tale profilo prospettato, non può essere considerata idonea ‑ anche ammesso ma non concesso lo si possa fare implicitamente ‑ la mera critica del convincimento, cui quel giudice sia pervenuto, operata, come nella specie, mediante la mera ed apodittica contrapposizione d'una difforme interpretazione a quella desumibile dalla motivazione della sentenza impugnata, trattandosi d'argomentazioni che riportano semplicemente al merito della controversia, il cui riesame non è consentito in sede di legittimità (e pluribus, da ultimo, Cass. 9.8.04 n. 15381, 23.7.04 n. 13839, 21.7.04 n. 13579, 16.3.04 n. 5359, 19.1.04 n. 753).
È, inoltre, necessario rilevare, sia pur solo ad abundantiam, come nel motivo in esame, con il quale s'imputa di fatto alla corte territoriale l'erronea interpretazione di più interconnesse convenzioni intervenute tra le parti, non siano ritualmente riportati i testi delle stesse (ma solo, e parzialmente, dell'una di esse), la correttezza o meno della cui interpretazione si richiede a questa Corte di valutare, ciò che costituisce un'ulteriore ragione d'ìnammissibilità del motivo, giacché, in violazione dell'espresso disposto dell'art. 366 n. 3 e 4 c.p.c., non vi si riportano proprio quegli elementi di fatto in considerazione dei quali la richiesta valutazione, sia della conformità a diritto dell'interpretazione operatane dalla corte territoriale, sia della coerenza e sufficienza delle argomentazioni motivazionali sviluppate a sostegno della detta interpretazione, avrebbe dovuto essere effettuata, in tal guisa non ponendosi il giudice di legittimità in condizione di svolgere il suo compito istituzionale(e pluribus, da ultimo, Cass. 9.2.04 n. 2394, 5.9.03 n. 13012, 6.6.03 n. 9079, 24.7.01 n. 10041, 19.3.01 n. 3912, 30.8.00 n. 11408, 13.9.99 n. 9734, 29.1.99 n. 802); non senza considerare, altresì, come l'impossibilità di rapportare le svolte censure in tema d'interpretazione della volontà negoziale delle parti all'esatto dato testuale nel quale quella volontà si è tradotta, ovviamente non surrogabile dalla lettura soggettiva datane dalla parte, comporti anche una violazione dell'art. 366 n. 4 c.p.c. sotto il diverso profilo del difetto di specificità del motivo.
In mancanza, dunque, d'un'adeguata impugnazione, nei sensi indicati, dei giudizi espressi dalla corte territoriale in ordine agli atti ed ai rapporti con gli stessi regolati, resta ineccepibile il consequenziale riconoscimento da parte dello stesso giudice della ricorrenza nella specie del presupposto di fatto legittimante l'accoglimento della domanda ex art. 2901 cc, giudizio operato in conformità ai fondamentali criteri legali d'interpretazione dettati dall'art. 1362, primo e secondo comma, cc e nell'ambito dei poteri discrezionali del giudice del merito, a fronte del quale, in quanto obiettivamente immune da censure ipotizzabili in forza dell'art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., la diversa opinione soggettiva di parte ricorrente è inidonea a determinare le conseguenze previste dalle norme stesse.
Quanto, poi, al vizio di motivazione, unico in effetti formalmente dedotto e realmente sviluppato con il motivo, devesi considerare come la censura con la quale alla sentenza impugnata s'imputino i vizi di cui all'art. 360 n. 5 c.p.c. debba essere intesa a far valere, a pena d'inammissibilità comminata dall'art. 366 n. 4 c.p.c. in difetto di loro puntuale indicazione, carenze o lacune nelle argomentazioni, ovvero illogicità nell'attribuire agli elementi di giudizio un significato fuori dal senso comune, od ancora mancanza di coerenza tra le varie ragioni esposte per assoluta incompatibilità razionale degli argomenti ed insanabile contrasto tra gli stessi; non può, per contro, essere intesa a far valere la non rispondenza della valutazione degli elementi di giudizio operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte ed, in particolare, non si può con essa proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento degli elementi stessi, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all'ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell' apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell'iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma stessa; diversamente, il motivo di ricorso per cassazione si risolverebbe ‑ com'è, appunto, per quello in esame ‑ in un'inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice del merito, id est di nuova pronunzia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di legittimità.
Né, com'è da tralaticio insegnamento di questa Corte, può imputarsi al detto giudice d'aver omesse l'esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi, giacché né l'una né l'altra gli sono richieste, mentre soddisfa all'esigenza d'adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti - come è dato, appunto, rilevare nel caso di specie ‑ da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sé sole idonee e sufficienti a giustificarlo; in altri termini, perché sia rispettata la prescrizione desumibile dal combinato disposto dell'art. 132 n. 4 e degli artt. 115 e 116 c.p.c., non si richiede al giudice del merito di dar conto dell'esito dell'avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata dell'adottata decisione evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla ovvero la carenza di esse.
Nella specie, per converso, le esaminate argomentazioni non risultano intese, né nel loro complesso né nelle singole considerazioni, a censurare le rations decidenti dell’impugnata sentenza sulle questioni de quibus, bensì a prospettare una valutazione degli elementi di giudizio in fatto difforme da quella effettuata dal giudice a quo e più rispondente agli scopi perseguiti dalla parte, ma ciò non soddisfa alla prescrizione dell'art. 360 n. 5 c.p.c., in quanto si traduce nella prospettazione d'un'istanza di revisione il cui oggetto,è estraneo all'ambito dei poteri di sindacato sulle sentenze di merito attribuiti al giudice della legittimità, onde le argomentazioni stesse sono inammissibili, secondo quanto esposto nella prima parte delle svolte considerazioni.
Non senza tenere, comunque, nel debito conto che, come già accennato, la motivazione fornita dal giudice a quo all'assunta decisione risulta adeguata e tutt'altro che incoerente, basata com'è su considerazioni del tutto condivisibili in ordine alla valenza oggettiva e logica attribuibile ai vari elementi di giudizio risultanti dagli atti istruttori sui quali il detto giudice ha ritenuto di potersi basare e su razionali valutazioni di essi, idonei gli uni e sufficienti le altre a giustificare il raggiunto convincimento; un giudizio, dunque, effettuato nell'ambito dei poteri discrezionali di valutazione del fatto attribuiti dall'ordinamento all'esclusiva competenza del giudice del merito ed a fronte del quale, in quanto riscontrato obiettivamente immune, per le esposte ragioni, dalle censure ipotizzabili in forza dell'art. 360 n. 5 c.p.c., la diversa opinione soggettiva di parte ricorrente è inidonea, giusta i principali regolatori della materia, a determinare le conseguenze previste dalla norma stessa.
Nessuno degli esaminati motivi meritando accoglimento, il ricorso va, dunque, respinto.
Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.