Come è noto, l’art. 2103 c.c. fa divieto al datore di lavoro di adibire il dipendente a delle mansioni inferiori rispetto alla qualifica professionale concordata contrattualmente o a quella acquisita o svolta successivamente all’assunzione. Inoltre, sempre a tenore di detta norma, il datore di lavoro non può trasferire il dipendente da una unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Di ogni patto contrario viene sancita la nullità.
L’assegnazione del lavoratore subordinato a mansioni inferiori alla sua qualifica attuata unilateralmente dal datore di lavoro, costituendo violazione dell’inderogabile disposto dell’art. 2103 c.c., dà luogo ad un atto illegittimo dello stesso, dunque inefficace (cfr. Cass. Civ., Sez. Lav. 88/5092): tuttavia, per affermato orientamento della giurisprudenza di legittimità, la modifica in peius delle mansioni del lavoratore è legittima se disposta con il consenso di questi o addirittura su sua richiesta (ad es. per evitare il licenziamento o la cassa integrazione: cfr. Cass. Civ., Sez. Lav. 99/11727, 93/5695).
Analogamente, i limiti previsti dal succitato art. 2103 c.c. in tema di trasferimento del lavoratore da un’unità produttiva all’atra, che cristallizzano la facoltà del datore di lavoro alla sussistenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, non operano nel caso in cui il trasferimento stesso sia stato disposto a richiesta del lavoratore (Cass. Civ., Sez. Lav. 93/5695, 88/6515). Inoltre, il potere discrezionale dell’imprenditore di trasferimento del lavoratore non opera se per norma di contratto collettivo o individuale venga stabilito, con carattere vincolante per entrambe le parti, che la prestazione lavorativa debba essere effettuata in un determinato luogo (cfr. Cass. Civ., Sez. Lav. 06/16907, 83/4334).
La pronuncia n. 43/2007 ha ad oggetto la fattispecie del trasferimento disposto nei confronti di dipendente divenuto invalido, il quale, a causa della conseguita inabilità al lavoro, non poteva più essere adibito alla sede originaria. Tuttavia, a seguito del predetto trasferimento, era stato adibito a svolgere mansioni inferiori. Il dipendente però, ritenendo il trasferimento illegittimo, oltre che per il demansionamento, perché non sufficientemente motivato, anche a seguito di richiesta avanzata ex art. 2 L. n. 604/1966, non prendeva servizio presso la nuova sede lavorativa assegnatagli, invocando l’eccezione d’inadempimento di cui all’art. 1460 c.c. Il datore di lavoro, quindi, disponeva il licenziamento del dipendente per reiterata assenza ingiustificata dal lavoro.
La Suprema Corte, pur non affrontando la questione della legittimità del trasferimento causativo di demansionamento poiché ritenuta assorbita dal preliminare bilanciamento di interessi tra inadempimento del datore di lavoro ed inadempimento del dipendente, riporta l’impostazione adottata dai giudici di merito (Corte D’Appello di L’Aquila, sent. 5 agosto 2003), in ossequio a consolidato orientamento di legittimità, già sopra enunciato, per cui “per l’attribuzione di mansioni inferiori – anche quando si rende necessaria per evitare il licenziamento – è prescritto pur sempre il consenso del lavoratore, giacchè lo ius variandi compete al datore nei limiti delle mansioni equivalenti, ai sensi dell’art. 2103 c.c.; ne consegue che – nel caso di sopravvenuta invalidità al lavoro, che renda impossibile la adibizione alle mansioni svolte – ove non siano reperibili in azienda mansioni equivalenti, il datore non può far altro che recedere dal rapporto”. Dunque, la violazione dell’obbligo di richiedere preliminarmente il consenso del lavoratore alla assegnazione delle inferiori mansioni in vista del trasferimento dà luogo ad un trasferimento illegittimo. Ciò in ragione del fatto per cui il trasferimento del dipendente può essere disposto solo per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive dell’azienda (Cass. Civ., Sez. Lav. 98/11634, 92/4178; si ricorda che le suddette ragioni non debbono necessariamente presentare i caratteri dell’inevitabilità, essendo sufficiente che il trasferimento concreti una delle possibili scelte, tutte ragionevoli, che il datore di lavoro può adottare sul piano tecnico, organizzativo e produttivo: si veda Cass. Civ., Sez. Lav. 01/27) e dunque non può comportare allo stesso un demansionamento. Tuttavia, si registra qualche isolata pronuncia di senso contrario, a tenore della quale nell’ipotesi di trasferimento del lavoratore da un’unità produttiva ad un’altra, con l’assegnazione di mansioni inferiori a quelle espletate nella sede di provenienza, l’illegittimità di tale mutamento di mansioni non comporta l’illegittimità del trasferimento, se disposto per comprovate esigenze aziendali, inerenti ad aspetti tecnici ed organizzativi o ricollegabili alle prestazioni e qualità professionali del dipendente, “con la conseguenza che il datore di lavoro inadempiente è tenuto all’assegnazione di mansioni equivalenti a quelle svolte dal lavoratore prima del trasferimento ed al risarcimento dei danni eventualmente cagionati, non già alla reintegrazione del lavoratore medesimo nelle mansioni e nella sede di provenienza” (Cass. Civ., Sez. Lav. 93/7789, ma anche Cass. Civ., Sez. Lav. 92/13299).
I motivi di ricorso addotti dal lavoratore, cioè trasferimento illecito poiché non supportato né seguito da motivazioni adeguate, hanno chiamato la Corte di Cassazione a pronunciarsi sull’interpretazione delle disposizioni, in combinato disposto, degli artt. 2103 e 1460 c.c., relativamente alle modalità con cui può essere disposto un trasferimento e all’exceptio inadimpleti opposta dal dipendente trasferito illecitamente.
In merito alla prima questione, si registrano due orientamenti parzialmente difformi in seno alla Sezione Lavoro della Cassazione. Un primo, più garantista, sancisce che il provvedimento del datore di lavoro di trasferimento di sede di un lavoratore che non sia adeguatamente giustificato a norma dell’art. 2103 c.c. determina la nullità dello stesso e integra un inadempimento parziale del contratto di lavoro, con la conseguenza che la mancata ottemperanza allo stesso provvedimento da parte del lavoratore trova giustificazione sia quale attuazione di un’eccezione d’inadempimento (art. 1460 c.c.), sia sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti; non potendosi vieppiù ritenere che sussista una presunzione di legittimità dei provvedimenti aziendali, che imponga l’ottemperanza agli stessi fino a un contrario accertamento in giudizio (Cass. Civ., Sez. Lav. 04/4771, 02/18209, 99/1074). Ai fini dell’efficacia del trasferimento del lavoratore ai sensi dell’art. 2103 c.c., tale orientamento prescrive che il datore di lavoro è tenuto ad indicare le ragioni tecniche, organizzative e produttive del provvedimento, in applicazione analogica dell’art. 2 della L. n. 604/1966, ove il lavoratore ne faccia tempestiva richiesta o avanzi contestazione (Cass. Civ., Sez. Lav. 04/9290, 04/8268, 98/1912, 94/2095, 86/4572).
A questo prevalente orientamento se ne affianca un altro, ripreso e confermato dalla sentenza della Cassazione n. 43/2007, che propende per la libertà di forma tanto della comunicazione del trasferimento tanto della richiesta dei motivi e della relativa risposta, atteso che la legge non postula alcun requisito formale e dunque non è applicabile la disposizione di cui al co. 1 dell’art. 2 della L. n. 604/1966 (04/109, 96/914). Riprendendo tale impostazione, la sent. n. 43/2007 ha reso la seguente prima massima: “Il provvedimento di trasferimento non deve necessariamente recare l’indicazione dei motivi, né quindi vi è l’obbligo di rispondere alla richiesta avanzata in tal senso dal lavoratore, non essendo prescritto, per il provvedimento di trasferimento, alcun onere di forma, salvo poi l’onere probatorio del datore di dimostrare in giudizio le circostanze che lo giustificano, come previsto dall’art. 2103 c.c.”
E’ evidente che sul contrasto così originatosi dovranno pronunciarsi le Sezioni Unite per la composizione.
Dalla questione della forma del provvedimento del trasferimento discende la seconda, risolta e massimata dalla Cassazione, dell’eccezione d’inadempimento ex art. 1460 c.c. opposta dal lavoratore a fronte di un trasferimento disposto in violazione di legge.
Come già ampiamente argomentato, dalla disciplina dettata dall’art. 2103 c.c. si desume che sussiste il diritto del lavoratore all’effettivo svolgimento della propria prestazione professionale e che la lesione di tale diritto da parte del datore di lavoro costituisce inadempimento contrattuale, il quale tra l’altro determina, oltre all’obbligo di corrispondere le prestazioni dovute, l’obbligo del risarcimento del danno da dequalificazione professionale (cfr. Cass. Civ., Sez. Lav. 01/14199).
Per ermeneutica consolidata, l’illegittimo comportamento del datore di lavoro consistente nell’uso dello ius variandi in violazione delle prescrizioni poste dall’art. 2103 c.c., può giustificare il rifiuto della prestazione lavorativa, in forza dell’eccezione d’inadempimento di cui all’art. 1460 c.c., purchè tale reazione risulti proporzionata e conforme a buona fede, come avviene nel caso in cui il dipendente continui ad offrire le prestazioni corrispondenti alla qualifica originaria (Cass. Civ., Sez. Lav. 96/8939, 88/6609, 84/434271). Nel caso affrontato nella pronuncia n. 43/2007, i giudici di merito hanno ritenuto il rifiuto di adempimento opposto dal dipendente contrario a buona fede poiché non accompagnato da contestuale offerta di esecuzione della prestazione nella sede di provenienza, quindi reazione sproporzionata rispetto al provvedimento di trasferimento presumibilmente viziato, tale da giustificare il successivo licenziamento. A sostegno di tale decisione sta un pregresso orientamento della Cassazione per il quale il rifiuto del dipendente di svolgere le mansioni affidategli, ove configuri un notevole inadempimento degli obblighi del lavoratore, può legittimare il recesso del datore di lavoro ai sensi dell’art. 3 L. n. 604/1966 (cfr. Cass. Civ., Sez. Lav. 87/2932). Sempre a detta della Suprema Corte, nella valutazione comparativa dei presunti inadempimenti reciproci, non si può prescindere dalla doverosa considerazione per cui il lavoratore non può rendersi totalmente inadempiente sospendendo ogni attività lavorativa, se il datore di lavoro assolve a tutti gli altri propri obblighi (pagamento della retribuzione, copertura previdenziale e assicurativa, assicurazione del posto di lavoro), potendo una parte rendersi totalmente inadempiente e invocare l’art. 1460 c.c. soltanto se è totalmente inadempiente l’altra parte (Cass. Civ., Sez. Lav. 98/1307).
Nella sent. n. 43/2007, ritenuta l’esuberanza e l’inconferenza dell’inadempimento del dipendente rispetto all’illiceità del trasferimento deciso dal datore di lavoro, contrariamente all’orientamento prevalente, sopra descritto, della ritenuta illegittimità del trasferimento di sede del lavoratore non adeguatamente motivato e dunque tale da giustificare l’exceptio inadimpleti di questi (di nuovo, Cass. Civ., Sez. Lav. 04/9290, 04/8268, 98/1912, 94/2095, 86/4572), viene enunciata la seguente seconda massima, corroborando un orientamento già affermato con le pronunce Cass. Civ., Sez. Lav. 06/11430, 02/10187, 01/2948, in ragione del quale “Il giudice, ove venga proposta dalla parte l’eccezione inadimplenti non est adimplendum, deve procedere ad una valutazione comparativa degli opposti adempimenti avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse; qualora rilevi che l’inadempimento della parte nei cui confronti è opposta l’eccezione non è grave ovvero ha scarsa importanza, deve ritenersi che il rifiuto di quest’ultima di adempiere la propria obbligazione non sia in buona fede e, quindi, non sia giustificato. Tale valutazione rientra nei compiti del giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se assistita da motivazione sufficiente e non contraddittoria”.
Occorre specificare, in vista del suddetto giudizio di bilanciamento degli interessi che deve essere pronunciato dal giudice di merito, che il requisito della buona fede previsto dall’art. 1460 c.c. per la legittima proposizione della exceptio inadimpleti contractus non sussiste quando l’eccezione ha per oggetto un inadempimento non grave, nel raffronto tra prestazione ineseguita e prestazione rifiutata o sia determinata da motivi non corrispondenti alle finalità per le quali essa è concessa dalla legge, avuto riguardo all’obbligo di correttezza delle parti di cui all’art. 1175 c.c. (Cass. Civ. 98/4743); e inoltre, il rifiuto di adempiere, come reazione al primo inadempimento, oltre a non contrastare con i principi generali della correttezza e della lealtà, deve risultare ragionevole e logico in senso oggettivo, trovando concreta giustificazione nella gravità della prestazione ineseguita, alla quale si correla la prestazione rifiutata (Cass. Civ. 04/6564).
Sulla base di questi consolidati principi, e tenuto conto dell’iter decisionale seguito dai giudici di merito e di legittimità, terminato poi con la sent. n. 43/2007, può desumersi che il rifiuto assoluto di continuare a prestare la propria attività lavorativa in una nuova sede disposta a seguito di trasferimento illegittimo, se non accompagnato dall’offerta di continuare ad eseguire la prestazione nella sede originaria, può configurarsi quale eccezione d’inadempimento contraria a buona fede. In sostanza si tratterebbe, per quanto riguarda il rifiuto di adempiere, di contegno contrattuale sproporzionato a fronte del parziale inadempimento del datore di lavoro che ha disposto il trasferimento in violazione dell’art. 2103 c.c, poiché la prestazione di quest’ultimo, sebbene viziata nel suo svolgersi, non ha comunque fatto venir meno il rapporto negoziale, conseguenza a cui darebbe luogo invece l’eccezione di totale inadempimento opposta dal dipendente illecitamente trasferito. Quest’ultimo dunque, secondo l’orientamento inaugurato dalle due massime pronunciate con la sent. n. 43/2007, deve in ogni caso prendere servizio nella nuova sede assegnatagli e poi ricorrere al giudice del lavoro ai fini della valutazione della legittimità del trasferimento disposto, visto che non rientra tra gli oneri del datore di lavoro l’indicazione dei motivi alla base del trasferimento di sede quando questo viene disposto e comunicato, essendo sufficiente che le ragioni tecniche, organizzative e produttive vengano comprovate in giudizio.