La rinnovata cultura sociale sul modo di intendere il rapporto medico paziente ha influenzato anche la giurisprudenza, che ha prima recepito e poi ritenuto fondamentale il principio della obbligatorietà del cosiddetto “consenso informato”.
Il crescente numero di ammalati che, sempre più frequentemente, ha fatto valere giudizialmente la (presunta) colpa professionale del medico, fondata in molti casi sull’imprudenza e negligenza nel formulare la diagnosi o sul mancato approfondimento degli accertamenti diagnostici, oltre che sulla mancata informazione e acquisizione del consenso, ha incrementato notevolmente il contenzioso su tale delicata materia.
Per citare una delle più recenti decisioni di legittimità, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18853 del 20 settembre 2004, ha accolto il ricorso di una paziente che aveva riportato danni, dopo essersi rivolta ad una clinica per un'operazione di chirurgia estetica (riduzione del seno).
Accogliendo la richiesta di risarcimento la Cassazione ha stabilito come la paziente avesse diritto non solo alla "restituzione" della somma pagata per sottoporsi all’intervento non riuscito, ma al risarcimento anche dei danni morali e materiali da liquidarsi in tutte le loro componenti.
Per quanto riguarda la giurisprudenza di merito si può citare la recentissima sentenza 13 dicembre 2004 del Tribunale Venezia (Altalex, 7 gennaio 2005), che ha condannato i convenuti (struttura ospedaliera in solido con i medici) al risarcimento del danno biologico, danno patrimoniale e danno esistenziale, qualificato nel caso di specie come la "sofferenza ricollegabile al dover essere a fianco del proprio congiunto in attesa che la malattia compisse il suo lento ed inesorabile cammino".
Scopo di questo scritto non vuole essere quello di toccare i molteplici aspetti e i diversi punti sui quali potrebbe fondarsi l’addebito di responsabilità di un medico; ma quello di mettere a fuoco proprio il principio del “consenso informato” la cui applicazione (e materializzazione in un documento) si è resa nel tempo sempre più indispensabile.
Si tratta del principio che rappresenta il diritto del paziente di scegliere, accettare o anche rifiutare i trattamenti (diagnostici, terapeutici ecc) che gli vengono proposti, dopo essere stato pienamente informato (salvo sua esplicita rinuncia) sulla diagnosi e il decorso previsto della malattia e sulle alternative terapeutiche (incluso il loro rifiuto) e le loro conseguenze.
Poiché di tale documento la giurisprudenza ripetutamente si è dovuta occupare, può essere utile “prelevare” i più significativi (ed anche chiari ed inequivocabili) criteri fissati, per inserirli in un discorso improntato, per quanto possibile, alla semplicità ed alla chiarezza.
Un lavoro di semplificazione e di conoscenza degli orientamenti giurisprudenziali che torni utile al personale medico e sanitario ed ai loro “pazienti”, prima che agli operatori del diritto ed ai conoscitori della res legale.
Una trattazione che tenga conto delle origini e distingua gli aspetti deontologici, che si ricollegano al codice di comportamento del medico, dagli aspetti giuridici (normativi e legislativi), senza trascurare gli aspetti tecnici e procedure formali attraverso cui si esplica e si attua il consenso.
PARTICOLARITA’ DELLA RESPONSABILITA’ DEI MEDICI
Una analisi “estesa” ed approfondita, sul tema della responsabilità in cui potrebbero incorrere i medici, implicherebbe il coinvolgimento nel discorso di regole e concetti di fondamentale importanza in fatto di responsabilità civile e penale, con la particolarità che in tale delicatissimo settore dove è in gioco la salute e la vita delle persone, alcune di queste regole, in base alle indicazioni giurisprudenziali, vanno a subire una “parziale deroga” per il configurarsi di un aggravio di garanzia.
Si tratterebbe di puntualizzare e distinguere tra responsabilità del professionista e del semplice prestatore d’opera e quindi tra diligenza professionale e diligenza ordinaria; tra colpa lieve e colpa grave; tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale o aquiliana (dal nome della Lex Aquilia che disciplinava nel diritto romano tale responsabilità), tra obbligazioni di mezzi e di risultato.
Si tratterebbe di soffermarsi sul fatto che le prestazioni professionali del chirurgo, soprattutto di quello estetico, sono state “riconsiderate” nel senso che può essere superato il tradizionale collocamento delle obbligazioni professionali tra quelle di “mezzi” e non di “risultato”.
Nel senso, cioè, che il chirurgo può essere chiamato a rispondere del mancato raggiungimento del risultato che il cliente si attende, ove dovesse prospettare al paziente una possibilità non realistica dell’effetto perseguito e possibile.
E’ del tutto evidente ed è cosa ovvia che la responsabilità professionale del medico di cui si discute si ricollega alla obbligazione che egli assume, nei confronti del cliente, di eseguire un determinato trattamento medico-chirurgico, che generalmente si distingue in tre diversi momenti: la diagnosi, la scelta della terapia e la sua attuazione.
La sua particolarità, di cui già si è fatto cenno, sta nel fatto che l’azione del medico, rispetto a quella di altri professionisti, va ad incidere su un diritto fondamentale, che è quello dell'integrità psicofisica dell'uomo la quale deve essere (“andrebbe”) rispettata sempre in ogni momento e in ogni situazione.
Ma, se da un lato non è lecito procurare una qualsiasi lesione ad una persona, è pur vero che in molti casi risulterebbe oggettivamente impossibile curare un malato senza incidere sull'integrità psicofisica.
Si può fare l’esempio più evidente che è quello del chirurgo, il quale debba eseguire un intervento che comporti anche l’asportazione di un organo insano.
L’unico modo per realizzare pienamente il rispetto dell'individuo bisognoso di cure - di qualsiasi tipo di cure non solo degli interventi chirurgici - è stato individuato in quello di procurarsi preventivamente il suo consenso, dopo averlo adeguatamente informato.
NATURA DELLA RESPONSABILITA’ PER OMESSA INFORMAZIONE ED ONERE DELLA PROVA
C’è pure da considerare che “il consenso, oltre che a legittimare l'intervento sanitario costituisce, sotto altro profilo, uno degli elementi del contratto tra il paziente ed il professionista ( art. 1325 c.c.), avente ad oggetto la prestazione professionale, sicché l'obbligo di informazione deriva anche dal comportamento secondo buona fede cui si è tenuti nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto ( art. 1337 c.c.)”. (Cassazione Civile Sent. n. 10014 del 25-11-1994)
Nella decisione sopra riportata la Corte ha optato per una responsabilità extracontrattuale, collegando l'obbligo di informazione al comportamento secondo buona fede cui le parti sono tenute nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto.
Peraltro, già con sentenza 29 marzo 1976 n. 1132 la Corte aveva enunciato l'opposto principio, facendo osservare:
che il contratto d'opera professionale si conclude tra il medico ed il cliente quando il primo, su richiesta del secondo, accetta di esercitare la propria attività professionale in relazione al caso prospettatogli;
che tale attività si scinde in due fasi, quella, preliminare, diagnostica, basata sul rilevamento dei dati sintomatologici, e l'altra, conseguente, terapeutica o di intervento chirurgico, determinata dalla prima;
che l'una e l'altra fase esistono sempre, e compongono entrambe l'"iter" dell'attività professionale, costituendo perciò entrambe la complessa prestazione che il medico si obbliga ad eseguire per effetto del concluso contratto di opera professionale;
che, poiché solo dopo l'esaurimento della fase diagnostica sorge il dovere del chirurgo d'informare il cliente sulla natura e sugli eventuali pericoli dell'intervento operatorio risultato necessario, questo dovere d'informazione, diretto ad ottenere un consapevole consenso alla prosecuzione dell'attività professionale, non può non rientrare nella complessa prestazione.
Di qui, in definitiva, la natura contrattuale della responsabilità derivante dall'omessa informazione.
Tale orientamento giurisprudenziale, successivamente fatto proprio da altre decisioni (Cass., 26 marzo 1981 n. 1773, Cass., 8 agosto 1985 n. 4394), è stato recentemente richiamato (Cassazione Civile Sent. n. 7027 del 23-05-2001) in quanto “sembra meglio adeguarsi, nel confronto con l'altro, al normale accadimento delle vicende umane e alle norme che tali vicende sono chiamate a regolare”.
Qualificare la violazione del dovere di informazione come un’ipotesi di inadempimento contrattuale, implica il fatto che “l'onere della prova correlativo si distribuirà tra le parti in conformità delle consuete norme in materia”, perché “com'è noto, l'orientamento tradizionale afferma che, in materia di obbligazioni contrattuali, è il creditore che deve dimostrare l'inadempimento, oltre al contenuto della non adempiuta obbligazione, mentre il debitore è tenuto, dopo tale prova, a giustificare ex art. 1218 c.c. l'inadempimento che il creditore gli attribuisce”.
Comunque, la qualificazione della responsabilità (contrattuale o meno) sembra non rivestire fondamentale importanza perché, aggiunge la Corte: “qualora l'informazione sia mancata, in tutto o in parte, si avrà una responsabilità del sanitario colpevole dell'omissione: la quale sarà di natura contrattuale ovvero di natura extracontrattuale (precisamente: precontrattuale ex art. 1337 c.c.), a seconda che si ritenga che il difetto d'informazione rilevi sul piano dell'inadempimento di un contratto già pienamente perfezionato, o su quello, semplicemente, delle trattative. (Cassazione Civile Sent. n. 7027 del 23-05-2001).
Nessun dubbio in proposito per il tribunale di Napoli: “L'onere della prova del mancato assolvimento del dovere di informazione da parte del medico (consenso informato) incombe sul paziente, che agisca in giudizio per ottenere l'affermazione di responsabilità del chirurgo”.(Trib. Napoli 12-10-2001).
ORIGINE ETICA E FONDAMENTO GIURIDICO DEL CONSENSO INFORMATO
Occorre brevemente premettere che l’origine del consenso informato è etica e la sua storia è quella dell’evoluzione di un principio etico a modello giuridico.
Confinato inizialmente nel campo della ricerca e della sperimentazione è stato poi trasferito a quello della pratica medica ordinaria.
Prima del suo affermarsi, l’opera del sanitario era improntata al principio paternalistico in base al quale il medico poteva agire per il malato ove avesse ritenuto, secondo scienza e coscienza, l’intervento utile alla sua salute.
Altro principio legittimante, che nel passato anche recente faceva del medico l’unico interprete della salute e della malattia, era il cosiddetto privilegio terapeutico (applicato quasi incondizionatamente) che consentiva di omettere di dare alcune informazioni in circostanze particolari, purché ciò fosse a vantaggio del paziente.
Una volta accolto, sia nella deontologia sia nell’ordinamento giuridico, il principio del consenso informato, il medico gradualmente è venuto perdere la veste di “sacerdote della salute” per indossare quella del professionista che stipula un contratto con il malato che si sottopone alle sue cure.
Sotto l’aspetto giuridico, l’acquisizione del consenso ad intervenire sulla integrità delle persone o sulla loro salute, come l’essenzialità dell’informazione sui rischi e sul prevedibile risultato, si ricollegano in primo luogo al fatto che la Costituzione garantisce all’articolo 13 l’inviolabilità della libertà personale (intesa pure come libertà fisica e morale) e al successivo articolo 32 tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo, fissando il principio secondo cui nessuno può essere sottoposto a un trattamento sanitario contro la sua volontà, se tale trattamento non è previsto come obbligatorio “per disposizione di legge”.
La volontarietà degli accertamenti e dei trattamenti sanitari (non obbligatori) è ribadita dall'articolo 1 della Legge 13 maggio 1978 n. 180 e dall'art. 33 della l. 23 dicembre 1978 n. 833.
Da circa un decennio c’è pure il codice deontologico dei medici (articolo 32 ) che è norma etica, ma giuridicamente rilevante nell’ambito dell’ordinamento professionale medico.
Anche per il codice di deontologia medica “Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l'acquisizione del consenso informato del paziente”.
EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE
Sulla necessità di chiedere il benestare del paziente per particolari operazioni ed anche di informarlo sulle conseguenze, si sono pronunciati per primi, come è ovvio, i giudici di merito.
Il principio individuato dalla locuzione “consenso informato” si è gradualmente affermato soprattutto dopo che anche i giudici di legittimità nel lontano 1967 ebbero a stabilire che“fuori dei casi di intervento necessario il medico nell’esercizio della professione non può, senza valido consenso del paziente, sottoporre costui ad alcun trattamento medico-chirurgico suscettibile di porre in grave pericolo la vita e l’incolumità fisica” (Cassazione sezione III 25 luglio 1967 n. 1945).
La Cassazione, in sostanza, venne a stabilire e confermare che era necessario acquisire il consenso e che per essere considerato “valido” doveva essere preceduto dalle informazioni circa le potenziali cause d'inefficacia della operazione chirurgica.
Invero, la sua acquisizione si è ritenuta inizialmente indispensabile, quasi esclusivamente nel caso di interventi chirurgici, con particolare riferimento a quelli di natura estetica.
La Cassazione nel 1985 ebbe a stabilire: “Il professionista ha il dovere d'informare anche sulle eventuali ragioni che possono rendere inutile la sua prestazione in relazione al risultato; in particolare, per il chirurgo estetico detto dovere comprende, oltre la prospettazione dei possibili rischi del trattamento suggerito, anche la effettiva conseguibilità o meno del miglioramento estetico desiderato dal cliente in relazione alle esigenze della sua vita professionale e di relazione”. (Cass. civ. 08-08-1985, n. 4394)
La stessa decisione, a proposito della chirurgia estetica, specificò che “il dovere d'informazione, gravante sul chirurgo estetico, ha contenuto più ampio rispetto al corrispondente dovere a carico del terapeuta, in quanto deve essere esteso alla possibilità di conseguire un miglioramento effettivo dell'aspetto fisico, che si ripercuota favorevolmente nella vita professionale e in quella di relazione”.
Concordemente la giurisprudenza ha ritenuto l’informazione del paziente “condizione indispensabile per la validità del consenso, che deve essere consapevole, al trattamento terapeutico e chirurgico, senza del quale l'intervento sarebbe impedito al chirurgo tanto dall'art. 32 comma 2 della Costituzione, a norma del quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, quanto dall'art. 13 cost., che garantisce l'inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica, e dall'art. 33 della l. 23 dicembre 1978 n. 833, che esclude la possibilità di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente se questo è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità (art. 54 c.p.)”. (Cass. civ. Sez.III 25-11-1994, n. 10014)
Gli stessi concetti sono bene espressi anche in una più recente massima della Cassazione penale: “il consenso afferisce alla libertà morale del soggetto ed alla sua autodeterminazione, nonché alla sua libertà fisica intesa come diritto al rispetto delle proprie integrità corporee, le quali sono tutte profili della libertà personale proclamata inviolabile dall'art. 13 cost” (Cass. pen. Sez.IV 11-07-2001, n. 1572 ).
Diretta conseguenza di tale principio, aggiunge, è che al medico non si può attribuire “un generale ‘diritto di curare’, a fronte del quale non avrebbe alcun rilievo la volontà dell'ammalato che si troverebbe in una posizione di ‘soggezione’ su cui il medico potrebbe ‘ad libitum’ intervenire, con il solo limite della propria coscienza”.
Quindi, i giudici chiariscono che l'abilitazione all'esercizio della professione sanitaria conferisce al medico la facoltà o la potestà di curare, ma per aderire ai principi dell'ordinamento è necessario il consenso della persona che deve sottoporsi al trattamento sanitario.
Il diritto all'autodeterminazione, che consente al malato di sottoporsi facoltativamente a trattamenti sanitari e di decidere, non può trovare piena applicazione soltanto nel caso degli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori che, nel rispetto della dignità della persona, la legge può prevedere nell’interesse della collettività.
Uniche eccezioni a tale criterio generale, aggiunge infatti la stessa decisione “sono configurabili solo nel caso di trattamenti obbligatori "ex lege", ovvero nel caso in cui il paziente non sia in condizione di prestare il proprio consenso o si rifiuti di prestarlo e d'altra parte, l'intervento medico risulti urgente ed indifferibile al fine di salvarlo dalla morte o da un grave pregiudizio alla salute”.
“Per il resto”, viene ancora precisato, “la mancanza del consenso (opportunamente "informato") del malato o la sua invalidità per altre ragioni determina l'arbitrarietà del trattamento medico chirurgico e, la sua rilevanza penale, in quanto posto in violazione della sfera personale del soggetto e del suo diritto di decidere se permettere interventi estranei sul proprio corpo”.
FORMA ED ASPETTI DEL DOCUMENTO
Rinviando alla parte conclusiva la presentazione dei casi “ordinari” in cui il paziente non può ritenersi in condizione di prestare il consenso, prima è bene sottolineare ancora una volta come l'acquisizione del consenso informato non sia una semplice convenzionalità ma la condizione inevitabile per trasformare un atto normalmente non permesso (la violazione dell'integrità psicofisica) in un atto consentito.
Per quanto riguarda la forma, in alcuni casi (comuni) la legge prevede la forma scritta (anche per interventi semplicissimi come il prelievo per la donazione di sangue) ma in mancanza di una legge che imponga quella scritta per lo specifico intervento, considerato che nel nostro ordinamento vige il principio della libertà della forma del negozio giuridico, potrebbe affermarsi la validità di qualsiasi forma (ivi compresa la forma orale e la forma tacita, cioè il comportamento concludente).
L’articolo del codice deontologico prima citato, prevede che il consenso debba essere “espresso in forma scritta nei casi previsti dalla legge e nei casi in cui per la particolarità delle prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche o per le possibili conseguenze delle stesse sulla integrità fisica si renda opportuna una manifestazione inequivoca della volontà della persona”.
Fa riferimento ad una”opportuna documentazione del consenso” come parte integrante un “procedimento diagnostico e/o trattamento terapeutico che possano comportare grave rischio per l'incolumità della persona”, da eseguirsi “previa informazione sulle possibili conseguenze”.
Tuttavia, anche quando la prestazione del consenso informato, per lo specifico intervento, non fosse soggetta ad alcuna condizione particolare, la forma scritta diventa inevitabile al fine di tutelarsi e quindi sotto l’aspetto della prova.
Un documento sottoscritto, sarebbe infatti preziosissimo ove, nel caso di esito negativo, si rendesse necessario fornire la prova del consenso all’intervento medico, con l’avvenuta informazione del paziente circa i rischi e le possibilità di (in)successo.
Non bisogna neppure dimenticare che la mancata richiesta del consenso costituisce autonoma fonte di responsabilità per il medico anche quanto l’intervento abbia esito positivo.
Il paziente potrebbe sempre obiettare (in ogni caso!) di non essere stato messo in condizione di effettuare le proprie scelte: “il medico risponde dei danni conseguenti alla violazione, per negligenza, del dovere di informazione del paziente sui possibili esiti dell'intervento chirurgico, al quale egli è tenuto in ogni caso (...)”. (Cass. Sez. III, sent. n. 6464 del 08-07-1994).
Affinché possa svolgere pienamente la sua funzione, il documento in discorso deve presentarsi sotto
un duplice aspetto: come una dichiarazione dell’informazione (anche verbale) ricevuta e come consenso alla specifica prestazione sanitaria prevista.
Il documento, sottoscritto sia dal paziente che dal medico, deve riportare i principali dati relativi allo stato di salute accertato mediante visita medica.
Alla rappresentata situazione obiettiva riscontrata nella visita, deve seguire la descrizione dell’intervento medico ritenuto necessario con le eventuali alternative e la spiegazione dei prevedibili rischi derivanti dalla mancata effettuazione della prestazione.
Perché sia un documento completo ed esauriente, deve prevedere anche l’illustrazione delle tecniche ed eventuali materiali impiegati, l’indicazione dei benefici come dei rischi derivanti con eventuali complicazioni ed esiti.
Quando il comportamento successivo, ai fini del “risultato”ed anche per evitare complicazioni, assume una particolare rilevanza, come avviene soprattutto in particolari interventi (chirurgia rifrattiva con la metodica del Laser, estetica ecc.) il paziente deve essere adeguatamente informato e (s)consigliato qualora non fosse sua intenzione seguire in modo completo l’iter chirurgico e tale comportamento dovesse compromettere gravemente la guarigione e quindi il risultato.
Quando è previsto l’uso di particolari strumenti (es. laser ) ed è atteso un certo risultato, il paziente deve essere informato del fatto che fattori estranei alla professionalità del chirurgo ed alla precisione dello strumento usato potrebbero comunque influire sulla guarigione e quindi sul risultato.
L’informazione serve a sollevare il chirurgo (fermo il suo dovere di diligenza professionale) da responsabilità civile di qualsiasi genere, in relazione all’eventuale mancato conseguimento del risultato previsto.
CARATTERISTICHE DELL’INFORMAZIONE
Una analisi estesa alla giurisprudenza di merito evidenzia che la caratteristica fondamentale di un consenso che possa dirsi “valido”, si ricollega al fatto che il paziente deve essere “opportunamente informato” .
Il più consistente filone di censure ovviamente si ricollega alla inadeguatezza o insufficienza delle informazioni nell’ambito personale (errore della diagnosi, valutazione della gravità, mancata previsione degli effetti collaterali o delle possibili complicanze, ecc)
In altre circostanze, riguardo al consenso, è stata fatta valere “la sua invalidità per altre ragioni” , che ruotano sempre intorno al problema della correttezza ed adeguatezza dell’informazione considerata nella sua “estensione oggettiva”.
Secondo la Cassazione, la responsabilità e i doveri del medico non riguardano solo l'attività propria e dell'eventuale "equipe" che a lui risponda, ma si estende allo stato di efficienza e al livello di dotazioni della struttura sanitaria in cui presta la sua attività, e si traduce in un ulteriore dovere di informazione del paziente.
Questo il principio fissato: “Il consenso informato - personale del paziente o di un proprio familiare - in vista di un intervento chirurgico o di altra terapia specialistica o accertamento diagnostico invasivi, non riguardano soltanto i rischi oggettivi e tecnici in relazione alla situazione soggettiva e allo stato dell'arte della disciplina, ma riguardano anche la concreta, magari momentaneamente carente situazione ospedaliera, in rapporto alle dotazioni e alle attrezzature, e al loro regolare funzionamento, in modo che il paziente possa non soltanto decidere se sottoporsi o meno all'intervento, ma anche se farlo in quella struttura ovvero chiedere di trasferirsi in un'altra. L'omessa informazione sul punto può configurare una negligenza grave, della quale il medico risponderà in concorso con l'ospedale sul piano della responsabilità civile, quindi del risarcimento del danno, ed eventualmente anche sul piano professionale, deontologico – disciplinare”. (Cass. civ. sez. III 16-05-2000, n. 6318)
A proposito degli interventi chirurgici condotti in "equipe", la Cassazione ha stabilito che il medico non può intervenire senza il consenso informato del paziente, aggiungendo che “se le singole fasi assumono un'autonomia gestionale e presentano varie soluzioni alternative, ognuna delle quali comporti rischi diversi, il suo dovere di informazione si estende anche alle singole fasi e ai rispettivi rischi”. (Cass. civ. Sez.III 15-01-1997, n. 364).
Sul fatto che la responsabilità e i doveri del medico non riguardano solo l'attività propria e dell'eventuale equipe che a lui risponda, ma si estende allo stato di efficienza e al livello di dotazioni della struttura sanitaria in cui presta la sua attività, traducendosi in un ulteriore dovere di informazione del paziente, la Cassazione è tornata in tempi recentissimi (Cass. civ. sez. III 30-07-2004, n. 14638).
Quest’ultima decisione ha confermato che il consenso informato, personale del paziente o di un proprio familiare, in vista di un intervento chirurgico o di altra terapia specialistica o accertamento diagnostico invasivi, non riguardano soltanto i rischi oggettivi e tecnici in relazione alla situazione soggettiva e allo stato dell'arte della disciplina, ma riguardano anche la concreta, magari momentaneamente carente situazione ospedaliera, in rapporto alle dotazioni e alle attrezzature, e al loro regolare funzionamento.
Il paziente deve essere messo in condizione non soltanto di decidere se sottoporsi o meno all'intervento, ma anche se farlo in quella struttura ovvero chiedere di trasferirsi in un'altra.
La massima in discorso pertanto conclude “se è vero che la richiesta di uno specifico intervento chirurgico, avanzata dal paziente, può farne presumere il consenso a tutte le operazioni preparatorie e successive che vi sono connesse, e in particolare al trattamento anestesiologico, allorché più siano le tecniche di esecuzione di quest'ultimo, e le stesse comportino rischi diversi, è dovere del sanitario, cui pur spettano le scelte operative, informarlo dei rischi e dei vantaggi specifici e operare la scelta in relazione all'assunzione che il paziente ne intenda compiere”. (Cass. civ. sez. III 30-07-2004, n. 14638)
Chiarito che il consenso per essere “informato” presuppone una specifica e particolareggiata informazione, nessun dubbio può esserci su chi sia tenuto a fornirla: “non può provenire che dal sanitario che deve prestare la sua attività professionale. Tale consenso implica la piena conoscenza della natura dell'intervento medico e/o chirurgico, della sua portata ed estensione, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative, con la precisazione, peraltro, che, nel caso di interventi di chirurgia estetica, in quanto non finalizzati al recupero della salute in senso stretto, l'informazione deve essere particolarmente precisa e dettagliata”. (Cassazione Civile Sent. n. 7027 del 23-05-2001)
CASI DI ESCLUSIONE DALL’OBBLIGO DEL CONSENSO
Vi sono delle situazioni particolari in cui risulta impossibile (comunque difficile) acquisire il consenso.
Si può dire che generalmente si considerano i seguenti tre casi:
quando il paziente è affetto da malattia mentale;
nelle situazioni di emergenza in pronto soccorso;
quando il paziente è minore d'età.
a) paziente con malattia mentale
Nel caso di malattia mentale, la quale implichi un trattamento sanitario obbligatorio, ai sensi della Legge 13 maggio 1978 nr. 180, il medico deve "svolgere iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi è obbligato" e quindi acquisire il consenso del tutore (ove ci sia) altrimenti si ritiene possa attuare la terapia.
Il Trattamento sanitario obbligatorio, come specifica l’articolo 1 della legge 180/78 si configura come un'eccezione espressamente prevista e disciplinata dal legislatore (nel pieno rispetto della riserva di legge sancita nel 2º comma dell'art. 32 della Costituzione).
Deve dunque considerarsi come un’eventualità del tutto eccezionale, una deroga espressamente autorizzata - e disciplinata nei minimi dettagli - dalla legge, (art. 2 della 180 e art. 34 della 833) al principio del necessario consenso.
La regola rimane quella della volontarietà del trattamento, mentre l’intervento obbligatorio o coattivo deve considerarsi l’eccezione.
Questo il senso della disposizione, contenuta nel comma 5 dell'articolo 1, in base alla quale: "Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato".
Quindi, prima di intervenire in via coercitiva deve farsi qualsiasi tentativo possibile che possa ritenersi concretamente utile per ottenere il consenso.
Il fatto che i trattamenti sanitari prestati in via coercitiva non devono violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana e della sua dignità, implica la fissazione di un criterio generale di valutazione del comportamento posto in essere dal medico e dai suoi collaboratori.
b) situazione di emergenza
Nel caso si prospetti una situazione di emergenza tale, per cui l’ammalato non sia in grado di esprimere il consenso, il medico può agire con una cura adeguata (indipendentemente dalla volontà di eventuali parenti), giustificato dallo stato di necessità.
Può essere fatta (eventualmente) valere, in tal caso, l’esimente dello stato di necessità prevista dall'articolo 54 del Codice penale in base al quale“Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”.
La regola che impone di acquisire il consenso potrebbe essere violata in quanto, stando alla giurisprudenza, si configurerebbe “la concreta immanenza di una situazione di grave pericolo alle persone, caratterizzata dall'indilazionabilità e dalla cogenza, tali da non lasciare all'agente altra alternativa che quella di violare la legge” (Cass. pen. Sez. I, sent. n. 11083 del 22-11-1985).
La Cassazione penale, con una decisione che ha fatto molto discutere, ha pure stabilito come in presenza di un effettivo “stato di necessità” non sia neppure necessario fare riferimento alle cause di giustificazione codificate: “Malgrado l'assenza di un consenso informato del paziente - e sempre che non sussista un dissenso espresso dello stesso al trattamento terapeutico prospettato - deve escludersi che il medico sia penalmente responsabile delle lesioni alla vita o all'intangibilità fisica e psichica del paziente sul quale ha operato in osservanza delle leges artis, poiché l'attività terapeutica, essendo strumentale alla garanzia del diritto alla salute previsto dall'art. 32 Cast, e autorizzata e disanimata dall'ordinamento ed è quindi scriminatura da uno “stato di necessita” ontologicamente intrinseco, senza che sia necessario fare riferimento alle cause di giustificazione codificate”. (Cass. pen. sez. I 29-05-2002, n. 528)
c) trattamenti sanitari su minori
Per quanto riguarda i trattamenti sanitari sui minori, non è possibile affrontare l’argomento senza far prima cenno all’ampio dibattito relativo all’autoderminazione e all’autonomia del paziente minorenne nelle questioni biomediche.
E’ un discorso troppo vasto per essere “sacrificato” in qualche riga dove si può solo dire che il principio “tendenziale” (come criterio di orientamento) individuato dalla magistratura minorile, nella risoluzione di contese, dissidi e divergenze, in ordine al diritto alla salute del minore e dei trattamenti sanitari che lo riguardano, è quello dell’autodeterminazione dei minorenni.
Si può aggiungere che il conflitto ed il bilanciamento tra il cosiddetto “principio di beneficenza” ed il correlato “principio di autonomia” dove si confrontano esigenze di protezione ad istanze di autonomia, costituisce il nucleo principale della questione biomedica.
In dottrina, tra i testi più recenti: La Forgia Guido, “Il consenso informato del minore "maturo" agli atti medico-chirurgici: una difficile scelta d'equilibrio tra l'auto e l'etero-determinazione” (in “Famiglia e Diritto”, 2004, 407)
In realtà, nel caso di interventi su minori, dando praticità e maggiore comprensibilità al discorso, si può dire che il consenso va richiesto ad entrambi i genitori in quanto esercenti la patria potestà e ove ci sia stata separazione il consenso va richiesto al coniuge affidatario.
Nel caso in cui i genitori siano stati privati della patria potestà o siano già morti il consenso dovrebbe esprimerlo il tutore.
Tuttavia, in coerenza con il principio secondo cui il diritto alla salute è personalissimo e la sua tutela non può essere affidata ad altri, se, malgrado la minore età, il paziente dimostra di essere “emancipato”, critico e volitivo è necessario anche il suo consenso e se c’è un contrasto con quanto decidono i genitori, deve essere fatta prevalere la volontà del minore, previo parere del giudice tutelare.
Lo spazio più o meno ampio di autonomia si ricollega ovviamente al grado di maturità ed equilibrio raggiunti che non sempre dipende esclusivamente e rigidamente dall’età anagrafica, anche se generalmente e indicativamente vengono distinte tre fasce di età.
Per una diversificazione del discorso etico-giuridico in relazione all’età del minore non ancora quattordicenne, almeno fino al recente passato, si è ritenuto che il minore non fosse in grado (salvo eccezioni e situazioni particolari) di comprendere pienamente i significati e le problematiche sottese ad un delicato intervento medico.
Nella fascia di età compresa tra i quattordici e i sedici anni, per il fatto che il minore acquisisce una individuale capacità di agire, alla consapevole volontà espressa dal minore non è possibile non riconoscere rilevanza soprattutto nel caso di esplicito e fermo dissenso.
A maggior ragione dopo il compimento dei sedici anni e fino alla maggiore età, quando la volontà del minore, fondata sull’accentuato sviluppo delle capacità fisiche e psichiche, assume una rilevanza quasi completa.
Sta di fatto che il diritto-dovere dei genitori (o del rappresentante legale) di curare il minore non può collidere con la sua libertà di decidere della sua salute.
Ovviamente, nel caso di pareri contrastanti, la risoluzione del caso non risulta mai facile e immediata in quanto per la piena liceità dell’intervento non basta il solo consenso del minore, né tanto meno quello dei soli genitori, ma ci vorrebbe il pieno assenso di tutti.
Come è stato osservato, ci si viene a trovare in una situazione in cui la volontà del minore risulta importante, anzi, molto importante, ma purtroppo non decisiva.
Viene citato a tal proposito l’articolo 6 della Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedica (Ovideo - 1997), che contiene una specifica disposizione riguardante i trattamenti sanitari rivolti ai minorenni:“Il parere del minore è preso in considerazione come un fattore sempre più determinante, in funzione della sua età e del suo grado di maturità”.
Alla suddetta disposizione fa da corollario l’analoga previsione del Codice deontologico dei medici il quale prevede il consenso del legale rappresentante (“fermo restando il rispetto dei diritti del legale rappresentante”), ma anche l’obbligo di informare il minore e di tenere conto della sua volontà, compatibilmente con l’età e con la capacità di comprensione (art. 34).
Soltanto nel caso di “trattamento necessario ed indifferibile”, l’opposizione del minore non viene considerata e se il legale rappresentante si oppone, il medico è tenuto ad informare l’autorità giudiziaria (art. 33).
Si può concludere dicendo che, a parte i casi di esclusione sopra individuati ed altri casi eccezionali, l'attività medica richiede per la sua validità e concreta liceità la manifestazione del consenso del paziente, che costituisce un presupposto di liceità del trattamento medico-chirurgico.
Mutuando le parole di una massima giurisprudenziale prima riportata si può ripetere che si tratta di un consenso che riguarda la libertà morale del soggetto e la sua autodeterminazione, nonché la sua libertà fisica intesa come diritto al rispetto della propria integrità corporale, le quali sono tutti profili della libertà personale proclamata inviolabile dall'articolo 13 della Costituzione.
Articolo di Giuseppe Mommo